Il Sud ti ammutolisce o ti fa parlare a vuoto. La “strada della vita”, come ho sentito chiamare la strada delle grotte-cantine di S. Mauro Forte (Matera), corre lungo un livido burrone battuto dai venti del nord. La solennità della solitudine è percossa dal ritmo ossessivo e minaccioso dei Campanacci, come S. Antonio nel deserto bastonato dai diavoli. E dal mito, in un continuum temporale circolare rassicurante, si è passati al rito.
Gruppi spontanei sincronizzano il passo al movimento sussultorio del bacino, che imprime l’oscillazione al batacchio di una campana armentizia; il corteo sfila lungo un labirinto di strade, contribuendo a potenziare il senso di smarrimento sensoriale, provocato dal suono cupo e cadenzato; poi cinge idealmente tre volte la linda chiesa di S. Rocco, allusiva soluzione del conforto religioso ai mali dell’uomo. Si distinguono in squadre questi “ultimi coribanti”, per età, costume e – conquista recente – genere. Ancora una volta, per noi, epigoni di un rito sedimentato e contaminato, si tratta di conquistare il plurale di un’espressione collettiva che sfugge alla unicità. È irrinunciabile, allora, declinare “il” Carnevale in “i” Carnevali. Momento di devozione, di coesione identitaria, di ritorno nostalgico dei sanmauresi trasferiti altrove, piaga che il paese ha sofferto più degli altri nel materano, oggi ossigeno di speranze di riscatto anche nell’attrattiva turistica, fondata sulle risorse dell’antropologia e delle tradizioni popolari e sul richiamo crescente che i centri minori esercitano sui maggiori.
Delle culture antiche italiche, greche e romane, commiste con i culti dionisiaci e cristiani, sopravvivono allusivamente l’allontanamento del male, significato dal valore apotropaico del movimento dell’oscillazione (basti pensare agli oscilla greci, magno-greci e romani, alle “decorazioni”, campane e sfere appese agli alberi); la propiziazione della fertilità degli armenti e della terra si legge tanto nell’esibizione dell’elemento fallico (copricapi a punta, bastoni con infiorescenze, campana “maschio” stretta e lunga da cui sporge il battaglio, a differenza della campana “femmina”, più larga con battaglio interno), quanto nella simulazione dinamica della danza-marcia a tre tempi. Ancora più remoto e, a mio avviso, più significativo, come per altri Carnevali meridionali, il richiamo alla morfogenesi semi-umana o semi-ferina degli esseri viventi e alla metamorfosi uomo-bestia e bestia-uomo.
“S. Antuono” protegge il maiale: la sua festa è a gennaio, quando i paesi si riempiono delle grida toccanti per la mattanza dei maiali, alle porte di ogni casa: solo il santo anacoreta, che si astiene dal consumarne la carne, solo lui, prometeico salvatore e protettore degli uomini e delle bestie, ha la facoltà divina di intendere le voci dei maiali, perché solo in quel giorno, tra la sera del 16 e l’alba del 17 essi parlano. Nel tentativo di oscurare e coprire quelle grida insopportabili, il paese percuote e fa risuonare i suoi strumenti tribali, e distoglie da sé, anche aggressivamente, il senso di colpa dell’uomo, cruento consumatore onnivoro di vita. La comunità lava le sue colpe e, mentre fa morire, offre in cambio cibi e vino in abbondanza, fino alla quaresima. E i bambini, cui si riserva il consumo corroborante del sangue della vittima, una volta adulti, terranno a perpetuare la festa. Un racconto che dall’Erectus, che aveva scoperto il fuoco e, dal crudo al cotto, aveva rivoluzionato le abitudini del consumo alimentare, attraverso tutti i periodi di carestia, di fame e di morte, di eroi salvatori e di benefiche e docili bestie, giunge fino a noi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
PHOTOGALLERY
CON GLI OCCHI, CON LE MANI Blog