di Redazione FdS [su segnalazione di CosiMali]
A lungo nella liturgia cristiana il 3 maggio si è festeggiata la Santa Croce di Cristo secondo la leggenda ritrovata da S. Elena a Gerusalemme sotto il tempio di Venere fatto erigere dall’imperatore Adriano sul Calvario. Ogni anno la ricorrenza era celebrata col titolo “In Inventione Sanctae Crucis” in concomitanza con l’accrescersi nel mondo cristiano della venerazione della Croce, considerata simbolo di sacrificio ma anche di trionfo della vita sulla morte. Dagli anni ’70 la festività è stata eliminata dal calendario generale ma la tradizione è rimasta ferma nella memoria di quella gente che, come i cittadini di Tropea (VV), in Calabria, avevano con essa un antico legame. A Tropea le origini del culto della Croce si fanno risalire almeno al XII. Oltre ad essere praticato in alcune chiese del centro storico cittadino, le fonti ricordano come questo culto avesse nel Borgo un suo luogo privilegiato davanti alla facciata di una casa su cui era posta una “conulea” (piccola edicola) con un quadro ad olio della Pietà. Fino a non molti anni fa, là si radunavano al tramonto le donne del rione, in preparazione della festa del 3 maggio, per officiare la novena con recita del rosario, intercalato dal verso “Evviva la Croce e chi la portò” e, a conclusione, veniva cantata la strofa della Via Crucis: Io ti adoro, o Santa Croce/duro letto del mio Signore./Io ti amo con il mio cuore e ti lodo con la voce. /Io ti adoro, o Santa Croce.
Al carattere religioso della festa, si unirono, a partire dall’Ottocento elementi profani allusivi alla pirateria turca, per secoli motivo di terrore per la gente di Tropea. Dalle coste dell’Africa Settentrionale, tra Libia, Algeria, Tunisia e il Marocco, muovevano alla volta dell’Italia e della Spagna i più pietati corsari, pronti a razzie e violenze d’ogni tipo contro gli infedeli. Saccheggiavano e rapivano giovani da vendere come schiavi nei mercati orientali. A Tropea, i cittadini cercavano di premunirsi, non sempre con successo, contro questa forma di sequestri, facendo nascondere giovani e belle ragazze in appositi nascondigli sotterranei. Fra le razzie più clamorose a Tropea e dintorni, ricordate dagli storici, si annoverano quelle del corsaro barbaresco Kair-ad-Din detto Barbarossa, il più crudele e temuto dei corsari, così come quelle di Dragut, anch’egli temibile pirata del XVI° secolo. Lo spavento e l’ansia furono dunque a lungo compagni di vita dei tropeani, soprattutto quando lungo l’orizzonte marino intravedevano una nave corsara, anche se diretta verso altre mete. Il fenomeno degli assalti corsari era diventato così frequente che Pedro da Toledo, vicerè di Napoli dal 1532 al 1553, suggerì all’imperatore Carlo V° la costruzione, lungo il litorale del Regno di Napoli, di varie torri come punti di avvistamento e di difesa. Le misure adottate non ebbero grande esito e neppure la vittoria della Lega Cristiana sui Turchi nella celebre battaglia di Lepanto, a cui parteciparono anche tre navi tropeane, riuscì a porre fine alla pirateria musulmana, il cui fenomeno proseguì a fasi alterne per secoli, concludendosi per sempre solo nel primo ventennio dell’Ottocento.
Fu così che diventata la pirateria solo un brutto ricordo, gli abitanti del Borgo arricchirono il programma religioso di celebrazione della Croce con alcuni elementi profani volti ad evocare quegli antichi nemici, in modo da esorcizzarne il ricordo: ecco quindi “u camiu” (il cammello) – in cartapesta – e “u camiuzzu ‘i focu” (il piccolo cammello di fuoco), strumento pirotecnico, anch’esso in cartapesta, in forma d’animale (presenti anche sagome d’asino) che lascia esplodere razzi per ogni dove, ed una nave corsara fatta di carta colorata montata su un’armatura di canne. Dalla disperazione dunque, si passa – nel rito della festa – al dileggio del nemico. Di giorno, al ritmo ossessivo di tamburo e grancassa, per le vie della città un uomo preposto allo scopo, da’ vita a passo di danza a “u camiu”, per ricordare il cammello vero di cui si servivano i pirati per riscuotere i tributi nelle terre occupate. “U camiuzzu ‘i focu” – il cammello sul quale viene messa alla berlina la sagoma raffigurante l’invasore saraceno che razziava il territorio di Tropea – viene invece fatto ballare di sera lungo la strada dove si svolge la festa, in modo che i suoi fuochi risaltino nel buio. La barca, ricoperta di bengala, viene fatta esplodere, a conclusione di serata, per simboleggiare la fine di ogni pirateria. Il suono della caricatumbula e dei tamburi, musiche per banda e conclusivi fuochi artificiali suggellano così il trionfo della Croce sulla Mezzaluna musulmana dei pirati di un tempo.
IL VIDEO – “TRI DA CRUCI”, EDIZIONE 2015, by COSIMALI per Racconta il tuo SUD