di Carmelo Nicolò Benvenuto
La straordinaria Versailles ante litteram, il palatium imperiale, che si erge sul colle Palatino di Roma, nasconde ancora un suo piccolo, fascinoso segreto. Dove l’Alcìde sconfisse, secondo il mito, il mostro furfante Cacus, nel luogo in cui Virgilio (Aeneis, VIII) colloca l’incontro, auspice il dio Tiberino, del profugo Enea, giunto in Lazio dall’Oriente, col re àrcade Evandro, figlio della ninfa Carmenta, a pochi passi dall’antrum Lupercale dove la tradizione vuole che la Lupa abbia allattato i figli gemelli di Rea Silvia, nel luogo esatto in cui sorgeva il tugurium Romuli, scenario del mito di fondazione dell’Urbe e della romanità, restano ancora oggi i segni, in serrata successione, dei luoghi-simbolo del potere della Roma imperiale, la domus Augusti, le domus Flavia, Augustana, Severiana, il Septizodium – ninfeo monumentale voluto dai Severi e ispirato alla religione astrale di Elagabalo – lo stadium domizianeo e il Circo, connessi alla dimora imperiale. Qui, nel cuore di questa autocelebrazione edilizia dell’imperium, nel grande sfarzo monumentale degno d’un Roi Soleil, nascosto tra i cunicoli di una struttura costruita in età domizianea a mo’ di raccordo tra il palatium stesso e il Foro sottostante, c’è un luogo segreto, fermo nel tempo e intatto, incastonatovi dal caso come un diamante o una scheggia, rintanato nel suo silenzio come un tabù.
Chi, tenendo alle spalle i Fori imperiali, superato da destra l’Atrium Vestae, si inoltrasse oltre l’archivolto, rimarrebbe forse attonito entrando, carico di meraviglia, dopo il grande atrio, in quella sorta di “Sistina greca e medievale”, come da tempo la si chiama, che dispiegherebbe al viandante i suoi misteri, il rutilante caleidoscopio di sante immagini che ricoprono interamente, su più registri, accompagnate da puntuali didascalie in lingua greca, le antiche, millenarie pareti, con il tripudio di angeli calligrafi e vergini guerriere – sguardi dolcissimi e corazze ricoperte di perle e di diamanti – e santi martiri e santi patriarchi, con barbe lunghissime e sapienti.
Santa Maria Antiqua è un forziere delle meraviglie riaperto, finalmente, dopo un faticoso, meticoloso restauro, durato trent’anni. Quando l’Antichità non era ancora finita e il Medioevo non ancora iniziato, in una città che non era più la Roma dei Cesari e non ancora, forse, la Roma dei papi, furono i Rhomaioi, i “romani” o, con parola di conio moderno, i bizantini, a fondarla, come una sorta di cappella palatina in strettissima connessione con la residenza imperiale, divenuta ormai sede del governatore orientale, al tramonto del sesto secolo dopo Cristo. Quando, col termine della guerra greco-gotica (535-553) che aveva devastato l’Italia intera – alcune delle omelie di Gregorio Magno in Ezechihelem sono dei veri e propri lamenti funebri per la città di Roma, stremata dalle devastazioni e dagli assedi – e infine la ripresa del potere sulla Città, prima con Belisario nel 536, poi con l’armeno Narsete nel 552, riuscirono a riguadagnare terreno in Italia e a mantenerlo, per almeno due secoli.
Fu, però, soprattutto l’interesse e la devozione dei papi, in un periodo di assoluta preminenza dell’elemento greco e orientale nella curia romana, a rinnovare continuamente l’apparato iconografico della basilica. Il periodo compreso tra settimo e ottavo secolo vide, a partire da papa Teodoro, sotto il regno di Eraclio, fino almeno, nel pieno ottavo secolo, al calabrese Zaccaria e al siciliano Stefano III, ascendere e avvicendarsi sulla Cattedra di Pietro una serie di facoltosi e influenti aristocratici o monaci bizantini, provenienti dal Meridione d’Italia o dal Medio Oriente siro-palestinese, che si suole raccogliere sotto la generica e forse fuorviante etichetta di “papi greci”. C’è un pezzo di Sud, insomma, nascosto, alle pendici del Palatino. Il calabrese Giovanni VII, compì, tra di loro, il gesto forse più denso di implicazioni politiche, scegliendo addirittura di spostare la residenza episcopale dal Patriarcheion lateranense al palatium del Palatino, nella domus Tiberiana, non sappiamo con quali precisi intenti e significati simbolici, politici e ideologici. Molti dei raffinatissimi affreschi in Santa Maria Antiqua si devono alla sua committenza, con forti affinità con l’oratorio vaticano dedicato alla Vergine da lui commissionato, divenuto poi il suo sepolcro e andato distrutto nel 1609 – ma comunque ricostruibile grazie all’ausilio dei disegni e delle incisioni dei moderni – i cui splendidi mosaici sono solo in parte conservati.
Non si deve con ciò credere, semplicisticamente, che la sola provenienza orientale di questi pontefici – il loro essere “greci”, per etnia o per cultura – bastasse a indurli a schierarsi con Bisanzio nel merito delle delicate e labirintiche questioni dogmatiche e di politica ecclesiastica che spesso intervenivano a turbare la quiete dei rapporti tra i patriarcati: il monachesimo siriaco e palestinese che giungeva a Roma come un cordone dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata – su cui tanto ha scritto Jean-Marie Sansterre – era anzi, molto spesso, espressione del dissenso bizantino nei confronti della stessa autocrazia bizantina e di quella compenetrazione tra Chiesa e Stato in Oriente e di sottomissione della Chiesa allo Stato, il cosiddetto “cesaropapismo”, che l’autocrazia di per sé comportava. Da Roma e dai “papi greci” si levarono fortissime proteste e resistenze prima all’Ekthesis e alla dottrina monotelita di Eraclio, poi al Typos di Costante II (che papa Martino, insieme a Massimo Confessore, si ostinò a rifiutare in blocco – ragion per cui egli venne condotto a Costantinopoli con la forza, esiliato in Crimea, a Kherson, torturato e ucciso senza pietà) e infine, dal 730 in avanti, all’editto iconoclastico degli Isaurici e alla loro dottrina. L’opposizione dei papi all’Impero risuonava significativamente dal luogo-simbolo – il Palatino – della βασιλεία, dell’imperium: Santa Maria Antiqua è, se così si può dire, il manifesto teologico e politico di questo dissenso.
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