Da venerata divinità a emblema di inquinamento: questo l’amaro destino del fiume campano Sarno che in appena 24 km di corso copre un vasto bacino di circa 500 km² interessando 39 comuni delle province di Napoli, Salerno e Avellino. Un fiume citato da poeti e scrittori dell’antichità che ce lo descrivono navigabile prima della celebre eruzione del Vesuvio del 79 d.C., quella che seppellì Pompei e Ercolano e ricoprì gran parte della valle di materiale vulcanico, talora alto decine di metri, lasciando scomparire terreni coltivati, case, strade e anche corsi d’acqua. È infatti possibile che quell’evento abbia fortemente modificato, se non addirittura stravolto il corso del Sarno, tanto è vero che già nel 553 d.C. di esso si era perso il nome originario, venendo menzionato come Dracone in riferimento agli schieramenti dell’esercito bizantino e di quello goto presso la città di Nocera. E coi nomi di Dragone, Dragoncello, Draconte e Draconzio viene ricordato ancora nel XVII secolo dallo scrittore Giovanni Maria Della Torre.
Prima di quella eruzione fatidica, al pari di altri celebri fiumi, il Sarno favorì lo sviluppo della civiltà umana, ragion per cui fu adorato come un dio. L’immagine allegorica più frequente che lo raffigura è quella di un vecchio con la barba, seminudo, disteso su un fianco e circondato da piante fluviali come canne e papiri, nel gesto di reggere un vaso da cui sgorga dell’acqua. Particolarmente significative sono a tal proposito due raffigurazioni che si conservano in Campania: quella che compare su un affresco pompeiano della Casa dei Triclini e quella del Fonte Helvius, l’antica fontana esistente nel paese di Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno), costituita da una vasca marmorea di epoca romana, nota anche come Fontana di San Nicola, sui diversi lati della quale il dio-fiume compare nelle due versioni iconografiche di giovane e uomo maturo, riferibili alla sorgente e alla foce.
Un tempo il Sarno era votato alla pesca, all’irrigazione e al trasporto delle merci e fin dal Medio Evo si ha notizia della esistenza lungo il suo corso di numerosi mulini. Un’altra attività che a lungo ha caratterizzato il fiume, fu quella delle fusare, laghetti artificiali legati alla coltivazione della canapa da cui si ricavava l’omonima fibra tessile. La bassissima pendenza con cui il fiume digrada verso il mare, fa sì che esso accumuli velocemente grandi quantità di sedimenti, ragion per cui fin dal Medio Evo le istituzioni, per impedire esondazioni, provvedevano alla pulizia del fondo del corso d’acqua e alla rimozione della vegetazione lungo gli argini. Un’antica consuetudine voleva che la pulizia fosse eseguita a cura della Città di Sarno, ma col concorso nella spesa anche dei centri di San Valentino, San Marzano, Striano e San Pietro di Scafati. La si realizzava spingendo nelle acque del fiume una mandria di bufale che con gli zoccoli smuovevano il limo del fondale, facilitandone il trascinamento a valle grazie alla corrente.
L’inquinamento del corso d’acqua (si dice sia il più inquinato d’Europa) impedisce oggi ogni tipo di attività. Gli sversamenti di concerie, industrie conserviere di pomodori e scarichi urbani non depurati, presenti lungo il fiume e i suoi affluenti, hanno reso le sue acque maleodoranti e malsane. E’ dagli anni ’70 che si parla di un progetto di risanamento del fiume Sarno, ma dopo oltre 40 anni non sembrano esserci stati cambiamenti di alcun rilievo. A poco sembra essere servita anche l’istituzione nel 2003 del Parco regionale del fiume Sarno un’area naturale protetta della Regione Campania che comprende la maggior parte dei comuni attraversati dal Sarno e che avrebbe, fra gli altri obiettivi, quello di attuare una politica di sviluppo e salvaguardia del territorio, se non altro perchè in quest’area le bellezze naturali paesaggistiche e quelle storico-architettoniche si sprecano (e non solo in senso figurato).
Per rendere omaggio a questo fiume storico così bistrattato, Laura Noviello, giovanissima studentessa liceale di Torre del Greco (Napoli), animata da una viscerale passione per la storia, l’ambiente, le tradizioni e la cultura dell’area vesuviana, ha realizzato alcuni scatti presso una delle cinque sorgenti del fiume Sarno, quella di Santa Marina, situata nei pressi di Lavorate, frazione di Sarno. Là dove l’acqua conserva ancora la trasparenza e la purezza delle origini, le bellissime immagini di Laura parlano il linguaggio di una ritrovata armonia con la Natura. Scegliendo la Masseria Pigliuocco come scenario per le sue foto, la giovane fotografa si è lasciata ispirare dalla visione animistica degli antichi e dalle parole dello storico Servio Mario Onorato (IV sec.) che nel suo commento all’Eneide virgiliana riporta la leggenda secondo la quale i primi abitanti della valle furono i Sarrasti, popolazione pelasgica proveniente dal Peloponneso. Nell’alta età del bronzo (intorno al 1600 a.C.) si sarebbero insediati in gran parte dell’Italia Meridionale e quindi anche nella valle sarnese, a quel tempo spopolata e priva di nome. Sarebbero stati loro a chiamare Sarno o Sarro il locale fiume (in memoria di un altro fiume, il Saron, che scorreva nella loro madrepatria), autodenominandosi Sarrasti, nome col quale pare fossero conosciuti anche dagli Etruschi. Una leggenda che conserva il suo fascino per quanto non condivisa da vari studiosi contemporanei che aderiscono alla tradizione di un’origine indoeuropea delle remote popolazioni locali, riportata anche da autori antichi come Antico di Siracusa, Aristotele e Polibio.
Ad ogni modo ecco cosa scrive Servio, citando Conone autore del I sec. a.C.:
«I Sarrasti sono popoli della Campania così chiamati dal fiume Sarno. Conone nel suo libro, in cui ha trattato l’Italia, dice che vi siano arrivati i Pelasgi e altri dal Peloponneso in quel luogo d’Italia, che non aveva avuto alcun nome prima, e che chiamarono Sarro il fiume che vi trovarono, dal nome di un fiume della loro patria, e sé stessi si chiamarono Sarrasti. Tra molte città fondarono Nuceria.»
Ad Aeneida, VII 738
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