di Redazione FdS
“…un altro svago caratteristico dei napoletani…i presepi, che a Natale si vedono in tutte le chiese e che rappresentano propriamente l’adorazione dei pastori, degli angeli e dei Re Magi, più o meno al completo, in gruppi eleganti e sfarzosi. In questa Napoli gioconda, tale rappresentazione è arrivata fin sulle terrazze delle case. Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambin Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa: un complesso guardaroba, per cui le famiglie spendono somme non irrilevanti. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni. Non è improbabile che, un tempo, fra queste sculture si siano mescolate anche delle figure viventi e che a poco a poco le famiglie nobili e ricche si siano divertite soprattutto a rappresentate la sera, nei loro palazzi, anche delle scene profane, tolte alla storia o alla poesia.”
J. W. Goethe, Viaggio in Italia, 1787
Il presepe napoletano del ‘700. Un caleidoscopio di colori e di forme in cui la rappresentazione della Notte Santa ha forse raggiunto il massimo della sua espressione artistica. Lo testimoniano i meravigliosi allestimenti della Reggia di Caserta o della Certosa di San Martino a Napoli, lascito di una particolarissima stagione d’arte che si espresse nei ricchi presepi della corte reale e in quelli dell’aristocrazia del tempo, di cui oggi rimane cospicua traccia in musei e collezioni private. Intorno ai presepi d’arte fiorirono e continuano ancora a fiorire i presepi artigianali, che ad ogni Natale fanno lussureggiante mostra di sè lungo la via S. Gregorio Armeno nel cuore più antico di Napoli. Il presepe napoletano più tradizionale è popolato di una molteplicità di personaggi ciascuno dei quali ha un suo specifico nome e una storia da raccontare o appartiene a gruppi omogenei ben identificati, per cui descriverli tutti richiederebbe lo spazio di un vero e proprio saggio monografico, ma visto che siamo nel giorno dell’Epifania abbiamo deciso di soffermarci solo sull’affascinante figura dei Re Magi, i tre sapienti giunti dall’Oriente misterioso a rendere omaggio al Dio bambino. Di loro ci piace ripercorrere la leggenda che nelle versione presepiale napoletana riserva una curiosa sorpresa.
Per ripercorrere dalle età più remote le tracce dei Re Magi possiamo rifarci al Libro della caverna dei tesori , datato al V secolo d.C., il più antico racconto orientale sui Magi di cui finora disponiamo, rielaborazione siriaca di un testo più antico. Hormidz, Jazdegerd, Peroz, questi i nomi riportati come originari dei tre regali visitatori presso la povera capanna di Betlemme, chissà attraverso quali vie poi mutati in Jaspar, Melchior e Balthasar. Il racconto vuole che due anni prima della nascita di Gesù i tre sapienti avessero una notte intravisto nel cielo di Persia una stella splendente e al suo centro l’immagine di una Vergine con in braccio un bambino coronato. I tre, interpretato il segno celeste come presagio della nascita di un nuovo re, si sarebbero arrampicati sul Monte Nud per prelevare dalla Caverna dei Tesori i doni da recare in omaggio al nascituro, doni – svela il racconto – lì deposti da Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre.
I tre Re, seguiti da un corteggio di armigeri, intrapresero così il loro viaggio verso la Giudea per far visita al Bambino contando di tornare lungo le vie carovaniere del deserto. Tale tradizione, insieme ad altre analoghe di origine iranica, sono poi confluite nella letteratura occidentale come ad esempio nella Historia Trium Regum del chierico carmelitano Giovanni di Hildesheim, in cui fra l’altro compaiono finalmente coi nomi con cui li conosciamo oggi. I Vangeli invece tacciono sui nomi e sul loro titolo: il primo a definirli Re fu Tertulliano, apologeta cristiano del II sec. d.C., che richiamandosi al Salmo 72, 10, spiega come “in Oriente i Re erano anche Magi”, un accostamento destinato a diventare tradizionale e definitivo (è qui il caso di precisare come la parola “Magio” indicasse in antico gli appartenenti a una casta sacerdotale iranica, di religione zoroastriana, mentre la radice mag significa potenza, uno stato di coscienza superiore riconducibile al dono divino dell’illuminazione e di una sapienza straordinarie; la radice del termine è quella sanscrita mahat e rimanda la latino magnus e al greco megas).
L’altro punto che i Vangeli non specificano è il numero esatto dei Magi, mentre fonti successive presentano varianti numericamente diverse come i 12 della Cronaca di Zuqnin, del VIII sec. d.C., un numero che sembra allegoricamente alludere ai mesi dell’anno e ai segni dello Zodiaco. Ma il numero che finì col prevalere fu il 3 in parallelo coi doni recati a Gesù (oro, incenso e mirra) nonchè simbolo di perfezione. Gli stessi magi, indipendentemente dal numero, hanno finito col caricarsi di valenze simboliche che li vedono ora espressione delle tre razze umane (semitica, camitica e giapetica) discendenti da Noè e dalla sua progenie, ora delle tre età dell’uomo (essendo comunemente rappresentati come un ragazzo, un adulto, un vecchio) o anche di tre fasi della luce solare, dal sorgere del sole al buio. Meno remota invece la comparsa di un Magio moro avvenuta in Germania ai primi del ‘400, forse a simboleggiare l’universalità del messaggio cristiano, significato a cui si riallaccia anche la introduzione nel 1505 in Portogallo di un quarto Magio con la testa coronata di piume alla maniera di un Indio sudamericano.
Ma ecco che scartabellando fra le tradizioni di casa nostra, vediamo spuntare un quarto Magio anche in Italia, per la precisione nella tradizione presepiale napoletana del ‘700, nella quale troviamo un personaggio molto popolare nei presepi dell’epoca; a sorprendere è l’eccentricità dell’identificazione, perchè questo “quarto Magio” era una donna. La si vede comparire in vesti esotiche fra le lussureggianti scene di corteggio al seguito degli altri tre. I napoletani la chiamavano buffamente la “Re Magia”, in verità uno di quei personaggi in cui – così come in diversi altri – confluisce quello straordinario fenomeno di sincretismo religioso fra Paganesimo e Cristianesimo tipico del Sud Italia e di Napoli in particolare, per cui l’antico persiste sotto nuove spoglie perpetuando i propri eterni valori simbolici. Ebbene questa misteriosa donna altri non è che Diana, personificazione della Luna e del principio universale femminile, che fa da pendant alla simbologia maschile e solare degli altri Magi e dello stesso Gesù. A volte di carnagione chiara, altre scura, ha tratti fini ed eleganti nell’incarnato lucente dall’aspetto smaltato; è detta anche La Georgiana e la si vede viaggiare a piedi oppure condotta da servitori su una portantina ricca non meno dei suoi abiti, spesso munita di diadema, collane di perle, e a volte anche di uno spadino con lama alla turca appeso alla cintola.
Immagini 1-4: Statuette raffiguranti la ‘Georgiana’, opere napoletane del XVIII sec. | Courtesy of CAMBI Casa d’Aste
Ma il simbolo dei simboli, quello più alto e poetico che i Re Magi incarnano, è quello della sapienza umana che si inchina di fronte alla Sapienza Divina, simbolo racchiuso nel gesto del Magio più anziano, il vecchio Gaspare dalla folta barba bianca, che in tanta iconografia d’ogni epoca lo vediamo togliersi la corona, poggiarla al suolo, e con umiltà chinare il capo al cospetto di un Bambino appena nato eppure già Re dall’Origine dei Tempi.
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