di Redazione FdS
Catastrofi naturali e interventi umani altrettanto distruttivi hanno posto un’ampia parte del patrimonio culturale calabrese in una condizione di preponderante decontestualizzazione che, unitamente a una quasi totale mancanza di strumenti d’indagine, ha fatto sì che le dinamiche di penetrazione delle tendenze dell’arte rinascimentale in Calabria rimanessero a lungo un territorio pressoché inesplorato. Ultimamente si va però assistendo ad una positiva inversione di tendenza fatta di restauri, mostre, riscoperte e identificazioni di opere inedite, come quella di una Madonna con Bambino in marmo di Carrara, dimenticata nella chiesa di Sant’Antonio di Padova a Gioia Tauro (RC) (fig. 1, sopra). Lo storico dell’arte Pasquale Faenza, al quale l’opera è stata segnalata dal prof. Walter Bonanno, a seguito di un analitico studio pubblicato sulla rivista Esperide, ne ha ricostruito le vicende storico-artistiche attribuendola allo scultore carrarese Giovan Battista Mazzolo, documentato per la prima volta a Messina nel 1512. Parliamo di un poco noto maestro del Rinascimento meridionale che durante la metà del Cinquecento riuscì a detenere il primato della scultura monumentale tra la Sicilia e Calabria, anche a seguito del trasferimento da Messina a Palermo nel 1508 del celebre Antonello Gagini.
L’opera, alta 120 cm e larga 80 cm, purtroppo non si è conservata integra, presentandosi infatti acefala, mutila dell’avambraccio destro e priva di scannello. Perduta, quasi per intero, anche la mano sinistra, di cui rimane solo il dorso con appena riconoscibili le falangi delle dita, in origine certamente distese a suggerire il sostegno di un attributo iconografico, purtroppo disperso anch’esso. Secondo Pasquale Faenza la scultura raffigurerebbe una Madonna con Bambino: quest’ultimo risulta oggi perduto ma la sua originaria presenza è confermata dalla sagoma della sua gamba destra, impressa sul risvolto del mantello materno, oltre che riconoscibile attraverso piccole porzioni originali di marmo, successivamente livellate per restituire al manufatto un aspetto meno frammentario possibile; la sua figura, secondo lo storico dell’arte, dovette essere rappresentato secondo una soluzione la cui origine sembra doversi riconoscere nella Madonna della Neve realizzata il 1491-92 da Benedetto da Maiano per il Monumento Correale ed oggi conservata nella locale parrocchiale di Santa Maria Assunta e Sant’Elia a Terranova Sappo Minulio (Reggio Calabria). Malgrado il pessimo stato di conservazione, il marmo gioiese preservava ancora molti dettagli che hanno consentito a Pasquale Faenza di attribuirla al Mazzolo, anche grazie al paragone con opere autografe dello scultore, come ad esempio la Madonna con Bambino (fig. 2) della chiesa di Santa Croce a Castell’Umberto (Messina), riconosciuta da Giampaolo Chillè nella scultura citata in un documento del 1512.
Tipiche impronte della produzione mazzoliana – spiega lo studioso – sono inoltre la perlinatura che corona le maniche del vestito, la struttura conica delle braccia, le plissettature della tunica, il disporsi del panneggio sul ginocchio, presenti anche nella Madonna delle Grazie (fig. 3) della chiesa di San Nicola a Galatro (RC), opera confluita nel catalogo del Mazzolo con una datazione compresa tra il 1517 e il 1523, giacché collegata alla fondazione della chiesa di provenienza voluta dal cardinale Andrea Della Valle, vescovo di Mileto tra il 1508 e il 1523. Con la Madonna di Galatro, quella gemella di Gioia condivide inoltre l’impostazione degli arti e soprattutto l’intera geografia del drappeggio, in parte rispondente anche a quello indossato dalla Madonna della chiesa Madre di Raccuia (Messina), firmata dall’artista probabilmente tra il secondo o il terzo decennio del XVI secolo, e da un altro esemplare a lui accostato, la Madonna con Bambino dell’Immacolata di San Giorgio Monforte (Messina), datata da Pasquale Faenza agli anni della fondazione della stessa chiesa, nel 1527.
Ancora troppo poco sappiamo della carriera artistica di questo artista carrarese, divenuto il massimo divulgatore del modello rinascimentale di Antonello Gagini. La critica è oggi propensa a suddividere la carriera di Giovambattista Mazzolo in due momenti. Il primo, scandito tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento, durante il quale lo scultore operò a stretto contatto con Antonello Freri, scultore messinese; il secondo, protrattosi fino alla metà del Cinquecento, segnato dalla presenza nell’organico della bottega del figlio Giandomenico, tra i più eccellenti interpreti dell’arte manierista tra le due sponde dello Stretto di Messina.
Originario di Carrara, il Mazzolo sarebbe nato, con molta verosimiglianza, tra il 1480 e il 1490, dal momento che la più remota notizia della sua presenza a Messina, del 1512, lo indicherebbe essere già un magister, mentre l’ultima lo vede ancora attivo nel 1550. Che al suo arrivo in Sicilia fosse una personalità artistica più che formata, lo confermerebbe la natura degli incarichi assunti, dal carattere imprenditoriale, legati non solo alla realizzazione di manufatti scultorei, ma anche alla compravendita di marmi e persino di panni. Il suo arrivo sull’Isola potrebbe, in ogni modo, anticiparsi al 1508, se non addirittura all’anno prima, giacché lo scultore è dichiarato cittadino messinese forse a partire dal 1512, di sicuro nel 1514. Di certo il trasferimento del Gagini da Messina a Palermo, nel 1508, dovette incidere in modo considerevole sulla scelta del carrarese di avviare la sua attività nella città del Faro. Unanime è invece il riconoscimento dell’influenza esercitata da Antonello Gagini, sebbene l’ipotesi di considerarlo un suo allievo non è mai stata pienamente condivisa. Per Pasquale Faenza, l’artista avrebbe appreso i rudimenti dell’arte del marmo a Carrara, per poi trasferirsi a Messina, già ricco delle conoscenze della plastica promossa nei cantieri toscani e genovesi da quegli artefici toscani, definiti dal Venturi “ornatisti in ritardo”, quali Lorenzo Stagi, Donato Benti, Benedetto da Rovezzano e Nicolao di Civitali.
La scultura di Gioia Tauro – aggiunge lo storico dell’arte – potrebbe coincidere con la Madonna “di marmoro bianco”, documentata alla fine del Cinquecento sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Ippolito, l’antica chiesa Matrice del centro di Gioia Tauro. Dell’opera – spiega – si persero le tracce già nel corso del secolo successivo, quando le visite pastorali citano solo l’altare maggiore, facendo riferimento ad una “imago S. Mariae Gratiorum”, che verosimilmente andò a sostituire la scultura del Mazzolo. È probabile supporre che essa avesse subito danni durante il terremoto abbattutosi sulla Piana nel 1638, dal momento che nessuna notizia cita la scultura nei secoli successivi. Quando la chiesa di Sant’Antonio da Padova fu edificata nell’area dell’antica chiesa di Sant’Ippolito, è in essa che la scultura, in pessimo stato di conservazione, dovette trovare ricovero. Quanto alla sua datazione, Faenza – che la ritiene espressione della cultura artistica maturata tra la Sicilia e la Calabria all’indomani della partenza di Antonello Gagini da Messina nel 1508 – sostiene che l’opera possa farsi risalire agli anni trenta del Cinquecento, quando il Mazzolo, insieme al figlio, Giovan Domenico, lavorarono intensamente nel reggino: risalgono infatti a questo periodo la Madonna di Santa Maria di Gesù (fig. 4) della chiesa del Rosario di San Procopio, eseguita tra il 1532 e il 1533, il San Basilio (fig. 5), proveniente della perduta chiesa eponima di Motta Sant’Agata (oggi nella chiesa di Gesù e Maria, a Cataforio), e la Santa Caterina, della chiesa di Tutti i Santi di Bianco.
Un interessante indizio che rafforza il legame dell’opera di Gioia Tauro con la bottega di Giovambattista Mazzolo – aggiunge Faenza – è la presenza, in qualità di beneficiario di una chiesa dell’antico centro di Gioia Tauro, di Giacomo Francesco de Sanctamaria, ricordato in un documento del 1531 tra i familiari del cardinale Andrea della Valle, vescovo di Mileto, tra il 1508 e il 1523. Si tratta dello stesso cardinale romano a cui Monica De Marco collega la committenza al Mazzolo della scultura della Madonna delle Grazie della chiesa di San Nicola a Galatro (v. fig.3, sopra), opera quest’ultima che mostra puntuali rispondenze con il simulacro mariano di Gioia Tauro. Poiché il cardinale riuscì, pur dopo la rinuncia all’incarico, a mantenere l’amministrazione dell’episcopato affidando l’incarico a persone di fiducia, è probabile – conclude Faenza – che un fiduciario del prelato, se non addirittura egli stesso, abbia fatto da tramite col Mazzolo nella commissione di un’opera destinata al principale luogo di culto dell’antica Gioia Tauro; trattativa avvenuta verosimilmente negli anni in cui lo scultore toccava l’apice della carriera, consacrata nel 1534, in occasione della consegna della Madonna con Bambino del portale maggiore del Duomo di Messina, in seguito al quale il senato peloritano definì il maestro carrarese «sculptor celeberrimus».
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