“In una dura giornata di guerra, io credo fermamente di averti intravisto o Signore. Era un ferito grave e già presso a morire (…). I suoi occhi erano colmi di dolore e di pietà, di volontà decisa e di dolcezza infantile. Al fondo vi tremava, attenuandosi, la luce di visioni beate e lontane. Come di bimbo che si addormenta poco a poco. Non altrimenti dovette guardare Gesù dall’alto della croce.”
di Redazione FdS
Le parole del beato Carlo Gnocchi evocano la profonda umanità del Cristo sulla Croce – per i cristiani potente strumento di salvezza e insieme metafora della nostra drammatica condizione di esseri mortali – ma anche la sua preminenza di Dio incarnato, supremo vertice di spiritualità che affronta il dolore, la sofferenza e la morte “senza dire nemmeno una parola” come scrisse il nobel tedesco Heinrich Böll. E’ la duplice essenza del Cristo che ritroviamo espressa in modo semplice, diretto – oseremmo dire sublime – nell’umile ma emozionante Crocifisso calabrese in legno di pero, dipinto e parzialmente dorato, che un attento restauro ha fatto riemergere pressoché intatto dall’involucro di stucco nel quale un estetizzante gusto settecentesco lo aveva letteralmente celato. La scultura, databile tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, è custodita presso il Santuario della Madonna della Luce, luogo di culto che, costruito intorno al 1064 e più volte rimaneggiato nel corso dei secoli, sorge a S. Pietro, frazione di Magisano, piccolo borgo ai margini della Sila catanzarese conosciuto soprattutto per aver dato i natali al noto regista cinematografico Gianni Amelio.
A ridare nuova vita a questa pregevole opera di anonimo scultore, che si ritiene realizzata presso una ignota bottega attiva nel territorio della vicina Taverna e dei suoi antichi casali, il restauratore Giuseppe Mantella, che ha sponsorizzato l’operazione nell’ambito di un suo progetto di ricerca sulle sculture lignee in Calabria condiviso con l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Catanzaro-Squillace diretto da don Maurizio Franconieri.
Il restauro è stato eseguito sotto l’egida della Soprintendenza di Cosenza rappresentata dal funzionario Giovanni Marrello. Mantella ha riportato la statua alla sua condizione originaria demolendo come un guscio d’uovo l’involucro di stucco ridipinto che lo ricopriva (nella foto precedente e in quella seguente l’opera prima del restauro). Il restauro, svolto in un arco temporale di 6 mesi, è stato frutto di lunghissime e minuziose operazioni di pulitura e di rimozione di tutte quelle superfetazioni che ne avevano stravolto completamente il modellato originale. Tali operazioni sono state scientificamente supportate da particolari indagini diagnostiche ed autoptiche quali: macro fotografie con microscopio ottico binoculare, infrarosso, ultravioletto ed XRF, finalizzate alla conoscenza della particolare e raffinata tecnica esecutiva. È emerso così come il manufatto sia stato realizzato in legno di pero e costituito da 5 parti: testa, tronco (fino all’altezza delle ginocchia), arti superiori, gambe e diverse porzioni di legno applicate a realizzare il perizoma. Si è potuto indagare la particolarità della tecnica esecutiva e si è constatato come sul Crocifisso non fosse presente alcun tipo di chiodi in metallo e che la giunzione delle parti fosse realizzata attraverso particolari incastri tra le diverse porzioni di legno; è emerso al contempo che tra le giunture non fossero presenti incamottature ma semplicemente uno strato di colla e gesso al quale è stato sovrapposto un composto di ossido di ferro e che fungeva da base ai colori dell’incarnato la cui resa cromatica era data da una particolare gamma di colori quali la biacca ed il cinabro.
Oggi il Crocifisso è collocato nella prima arcata laterale sinistra del santuario della Madonna della Luce, nel luogo in cui vi era un altare ligneo dedicato al SS. Crocifisso, rimosso in seguito a restauri del 1954. Tuttavia, come spiega Dante Palmerino, l’esperto che insieme ai restauratori ha curato il primo studio su quest’opera, si ignora la sua collocazione originaria così come l’assetto remoto della chiesa che nel ‘500 era già sede arcipretale di S. Pietro, a quel tempo casale di Taverna, il primo e il più antico. Dalle fonti – aggiunge Palmerino – risulta che nel XVI secolo, tra le sei cappelle della chiesa, ce ne fosse una dedicata al SS. Salvatore, del nobile Placido Scariola, mentre a partire dal Seicento, e fino a tutto il Settecento, ci fu un altare dedicato alla Trasfigurazione di Cristo, riconducibile alla famiglia Galasso. Non mancavano poi sul territorio varie Confraternite, una delle quali potrebbe aver commissionato il Crocifisso, appartenente a un genere di opere molto legate alla pietà popolare così come ai drammi liturgici e alle processioni della Settimana Santa.
Non bisogna infine trascurare la forte influenza degli ordini mendicanti, soprattutto i Francescani ed i Domenicani, che fin dalla loro fondazione hanno sempre manifestato una forte devozione al Crocifisso rivolgendo le loro prediche dinanzi ad esso. Infatti, come riporta la Cronica di Taverna, nella cittadina così come a S. Pietro, vi era una presenza di domenicani già nel quattrocento. La costruzione del loro convento a S. Pietro risale però al 1570, con annessa la chiesa del S. Rosario, oggi scomparsa, nella quale risulta esserci stato un altare del Crocifisso con relativa statua lignea. Al XIX secolo risale invece un altare del Crocifisso riferibile alla chiesa arcipretale dove, come gesto devozionale, potrebbe esservi stato trasferito, con la annessa statua, proprio dalla scomparsa chiesa del Rosario.
Per quanto concerne lo stile dell’opera, rientra nella tipologia del Christus patiens ma in questo caso, più che la sua sofferenza durante la Passione – sottolinea Palmerino – viene cristallizzato il momento successivo all’esalazione dell’ultimo respiro. Gli occhi sono infatti chiusi, il capo reclinato sulla destra e la bocca leggermente aperta, tanto da essere evidente la dentatura. Nonostante le ferite e la copiosità del sangue, Cristo sembra avere un volto disteso, come se fosse addormentato. “Sebbene la compattezza e semplicità dell’intaglio della capigliatura, il corpo emaciato con esili braccia e l’intaglio di vene e tendini siano più tipici di modelli quattrocenteschi – nota lo studioso -, il perizoma corto, alcuni tratti del volto, ma anche il modo di intagliare l’arcata epigastrica e la postura fanno pensare a modelli più di fine quattrocento-primi cinquecento”. Attraverso questa scultura l’autore – precisa Palmerino – rivela “un sentire estetico legato tanto al tardogotico quanto a prime novità espressive naturalistiche” e riferibile a modelli “definiti “gotico-dolorosi”, non tutti di matrice nordica, soprattutto tedesco-renana, ma anche di produzione autoctona italica, declinata nei vari territori in base al gusto, alle influenze artistiche e culturali locali”. Quest’ultimo riferimento è a modelli mediterranei – probabilmente siciliani e iberici (siamo in una fase cronologica tra la dominazione aragonese e gli inizi del Viceregno spagnolo) – il cui influsso si nota soprattutto nell’addolcimento della fisionomia del volto.
“Il Crocifisso – aggiunge Palmerino – esprime ancora tutta l’importanza della corporeità e di quella maggiore attenzione che si dava all’umanità di Cristo. Unico richiamo alla regalità divina è l’uso dell’oro in ciò che resta di una bellissima doratura del perizoma, restituita grazie al restauro”.
Grazie al restauro – spiega Palmerino – “si può sottolineare la certa corrispondenza tra questa opera e la sua omologa di S. Giovanni d’Albi (Catanzaro), che al netto di alcune visibili superfetazioni, di una pesante ridipintura, è uguale per tecnica, ductus, dimensioni, alcuni tra i dettagli più significativi del modo di intagliare di questo autore, come la capigliatura ed il perizoma, il profilo del naso, le rughe d’espressione sulle guance, la gabbia toracica.” Lo storico dell’arte Gianfrancesco Solferino ha ipotizzato anche un collegamento con i Crocifissi delle chiesa Matrici di Magisano e Fossato, sempre nella pre-Sila catanzarese, quale espressione di “un’unica koinè espressiva radicata nel territorio”.
Per quello di Magisano, pur ritenendolo probabilmente coevo e ascrivibile ad un medesimo contesto artistico, Palmerino ritiene di escludere che sia della stessa mano rilevando “alcune non trascurabili differenze nel modo di intagliare l’arcata epigastrica, nel volto e in complesso nella postura, anche più abbozzata e meno caratterizzata espressivamente, anche se non è da escludere che possa aver subito rifacimenti nel corso dei secoli.” Quanto al Crocifisso di Albi – conclude lo studioso – “appare ancora più fortemente ridipinto e probabilmente rimodellato e, in attesa di una diagnostica e di un maggior studio, non si può escludere che si tratti di semplice reiterazione di modelli in secoli successivi”.
Cosa si può dire dell’autore del Crocifisso di S. Pietro? Su questo punto l’ipotesi di Palmerino – vista la presenza di più crocifissi con caratteristiche simili, e in attesa di ulteriori sviluppi delle ricerche – è che esso sia ascrivibile a “una ignota bottega attiva nel territorio di Taverna e casali nella seconda metà del XV sec.-primi del XVI sec., ma in assenza di riscontri documentali non è dato sapere se si tratti di bottega con elementi forestieri o semplicemente influenzati, se non addirittura in parte formati fuori regione”, senza trascurare che nella zona – come riporta l’antica Cronica di Taverna – “erano ben strutturate e regolamentate le Prefetture delle Arti” tra le quali figurano Pittura e Scultura, mentre per qualsiasi altra “che fosse altrove più eccellente, si mandavano li Giovani idonei fuora per apprenderla”. Non bisogna tuttavia dimenticare – conclude Palmerino – che esisteva anche una tradizione di intagliatori legata alla presenza, dal 1505 al 1653, dei terziari francescani a Magisano, con il convento di S. Maria di Loreto e l’annessa chiesa oggi detta del Rosario. E’ dunque evidente come solo ulteriori studi e scoperte potranno fornire definitive certezze.
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