di Kasia Burney Gargiulo
Uno degli emblemi moderni del tempo congelato da una catastrofe naturale o da un attentato umano è l’orologio con le lancette bloccate sull’ora dell’evento. A Pompei, a causa della fatidica eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. ne segnò il destino insieme a quello di altre città dei dintorni, il senso del tempo interrotto si percepisce un po’ ovunque – per le vie, nelle case, nelle botteghe, nelle terme, nelle sagome degli abitanti impresse nel gesso dei calchi – avendo l’opera del vulcano come tracciato una sorta di istantanea della città. E ogni tanto capita che si aggiunga un altro tassello al mosaico di questa istantanea.
L’ultimo è quello riemerso dall’area della Necropoli di Porta Ercolano, là dove un vasaio del tempo stava per infornare decine di vasi in argilla nella fornace della sua bottega, vasi ritrovati nel luogo esatto in cui si trovavano migliaia di anni fa. In quel momento lo colse la furia dell’eruzione. A raccontarcelo e a mostrarcelo è un programma di ricerca nato da una partnership fra la Soprintendenza napoletana e il Centre Jean Bérard e dell’École Française de Rome e dedicato all’”Artigianato e all’Economia a Pompei”. Non vi è stato impiego di denaro pubblico italiano grazie ai finanziamenti di mecenati privati francesi (Cmd2 e Neptunia).
Il programma è guidato da Laëtitia Cavassa (Cnrs, Centre Camille Jullian di Aix-en-Provence, Umr 7299 e il Centre Jean Bérard di Napoli, Usr 3133) e si avvale della collaborazione di Bastien Lemaire. Lo studio iniziato circa dieci anni fa si è concentrato sull’area nei pressi della necropoli Porta Ercolano, immediatamente fuori dalle mura della città. Ad essere documentata è l’attività artigianale dei ceramisti del tempo. In particolare una fornace (nella foto – ph. Soprintendenza di Pompei) era già stata indagata nel 1838 ma lo studio del luogo è andato avanti consentendo oggi di analizzare la tipologia di produzione, la data di inizio dell’attività, gli spazi di lavoro all’interno della bottega e gli strumenti del mestiere come il tornio e i bacini di decantazione. Inoltre ha permesso di rivelare la presenza anche di un’ulteriore bottega con altre due fornaci, anch’esse utilizzate per la produzione di vasi a parete sottile. A poca distanza è stata ritrovata una sala destinata alla tornitura dei vasi con quattro torni da vasaio, anfore contenenti resti di argilla cruda, vasi crudi caduti da una mensola e un gruppo di attrezzi. “Sono – ha dichiarato la Soprintendenza – elementi finora mai documentati e fondamentali per la conoscenza della lavorazione della ceramica e delle tecniche usate degli antichi nell’ars figulina durante il I sec d.C.”
La Soprintendenza ha infatti definito tali scoperte “sorprendenti” e – scendendo più nei dettagli in una nota stampa – ha spiegato come “a pochi metri dalla fornace sia stato rilevato un livello di lapilli del 79 d.c. che rinchiudeva, proteggendoli, una decina di vasi non ancora cotti. Una prova diretta che la bottega era in piena attività in quel giorno. Si tratta di boccalini a parete sottile, usati per bere o contenere alimenti, decorati con piccole incisioni e ingobbiati; i cosidetti “pignattini” descritti dagli scavatori dell’800 nei giornali di scavo dell’epoca”.