Da luogo reale dell’assenza a metafora esistenziale. Da sinonimo di aridità a fucina di nuovi fermenti. È il deserto raccontato nelle storie da tutto il mondo presentate a Bari nell’edizione 2016 del TEDx
di Enzo Garofalo
Dodici ospiti dall’Italia e dal mondo, altrettante storie da raccontare in 18 minuti e oltre ottocento spettatori in uno dei teatri storici d’Italia: sono i numeri della seconda edizione del TEDx andata in scena sabato scorso al Teatro Petruzzelli di Bari, città che insieme a Lecce capeggia la lista delle edizioni della celebre conferenza finora realizzate nel Sud Italia. L’iniziativa di ospitare l’inconsueto e multidisciplinare storytelling si deve all’Associazione per TEDxBari fondata da un gruppo di giovani pugliesi, passati da 4 a 22 nel giro di un anno. Come numerosi altri promotori della conferenza basata su un format ormai collaudato ovunque, anch’essi hanno sposato l’idea che quanto più si accresce la complessità delle dinamiche globali, tanto più diventa interessante e stimolante ascoltare le voci di quanti, spesso in modo pionieristico, elaborano idee o soluzioni. Intorno alla diffusione delle idee che abbiano un valore, quelle cioè “che meritano di essere diffuse”, si è infatti costruita fin dal 1984 la filosofia del TED, la conferenza nata per riunire persone provenienti dai mondi della Tecnologia, dell’Entertainment, del Design, ma allargatasi nel tempo a più ampi temi della cultura, della scienza, della politica e delle problematiche globali.
Alla originaria TED Conference si sono aggiunti i TEDx, eventi indipendenti organizzabili in qualsiasi città del mondo su autorizzazione della fondazione promotrice, purché vengano rispettate precise linee guida. Insomma una vera e propria rete di “voci” per tornare a riconoscere alle idee “il potere di cambiare il mondo”, pensieri e azioni a cui Internet garantisce a sua volta un effetto moltiplicativo tramite la diffusione on line dei video di ogni contributo.
La forza di un “talk” consiste nella sua capacità di rappresentare un “caso” di innovativo cambiamento in un ambito di interesse generale oppure la testimonianza di un incisivo approccio a problematiche che potrebbero riguardare la vita di chiunque, magari traducendosi – in entrambi i casi – in un’ispirazione per analoghe esperienze virtuose. Se sono dunque questi gli estremi che rendono una storia degna di essere raccontata in un TED, dovrebbero ritenersi banditi autoreferenzialità o intenti celebrativi. Questa selettività è infatti la sfida non facile per chi decide di organizzare una conferenza del genere, almeno laddove si voglia evitare di trasformarla in un mero show per un pubblico pagante.
Si sono sforzati di evitare questa trappola gli organizzatori del TEDx Bari, condotto sul palco dal direttore artistico Nicola Curzio, che ha presentato contributi di diverso spessore e grado di coinvolgimento. Filo rosso della eterogenea serie di interventi è stato il deserto, nella comune accezione di luogo reale dell’assenza ma anche di metafora esistenziale, condizione dell’aridità e del disagio e al tempo stesso punto da cui partire per capovolgere una prospettiva, “un po’ come accade per il mutevole profilo delle dune di sabbia”, per citare le parole di uno degli ospiti.
Un messaggio di speranza e di fiducia nella vita, anche quando le avversità sembrerebbero non lasciare chance, è giunto dal primo contributo che ha visto protagonista l’atleta Martina Caironi, portabandiera per l’Italia alle Paraolimpiadi di Rio 2016 e medaglia d’oro nei 100 metri. Il suo è stato il racconto di una vittoria della volontà prima che del corpo, che l’ha vista prevalere su un incidente gravemente invalidante e poi, dopo anni di allenamenti e successi, su un nuovo problema fisico che rischiava di compromettere l’importante appuntamento sportivo. “Questa medaglia – ha detto Martina – è un simbolo per tutti, la prova che non bisogna mai fermarsi a metà strada ma credere fino in fondo nei propri sogni”.
Il deserto è anche sfida all’ingegno umano per la sopravvivenza in un ambiente ostile: a raccontarne un esempio è stata l’archeologa Leigh-Ann Bedal, del Penn State Behrend College della Pennsylvania, che nella splendida città giordana di Petra, Patrimonio dell’Umanità UNESCO, ha riportato alla luce un sistema idraulico estremamente innovativo per una realtà urbana fondata diversi secoli prima dell’era cristiana; un sistema che andava ad alimentare uno straordinario giardino e un’ampia piscina decaduti solo secoli dopo col mutamento degli assetti politici e economici dell’area: “fu questa l’opera di un popolo, quello dei Nabatei – ha affermato Bedal – che è stato capace di appropriarsi e di controllare le scarse risorse idriche talmente bene da potersi permettere anche di sprecarle e di ostentarle con sfarzo”.
L’intervento del giurista Ugo Mattei, docente di Diritto Internazionale comparato alla California University e di Diritto Civile all’Università di Torino, è purtroppo saltato avendo l’ospite dato forfait per un improvviso problema di salute. La proiezione di un suo parziale contributo video, sfumato sul più bello, non ha compensato la mancata trattazione di temi scottanti come la valenza del referendum sull’acqua, il deserto culturale del “pensiero unico”, il ruolo delle privatizzazioni nello scenario economico del Paese.
La giornalista freelance barese Francesca Borri, corrispondente di guerra dal Medio Oriente, ha invece raccontato il deserto della guerra, “fatto di pezzi di corpi umani, non di pietre”. Un deserto di regole, di logica, dove gli uomini che muoiono “non sono un effetto collaterale, ma l’obiettivo principale”; un deserto di responsabilità “perché nessuno pagherà per i 500 mila morti provocati in Siria nell’arco di 5 anni”. E infine il deserto dell’immigrazione, “la fuga dall’inferno in difesa della propria libertà e dignità, perché chi fugge – sottolinea Borri – non è un perdente, ma qualcuno che ha deciso di non subire e di lottare per costruirsi un futuro.” E poi la guerra e la povertà come prezzi pagati da altri per garantire la nostra ricchezza. Per Borri questa è stata anche l’occasione per denunciare “il deserto di una generazione”, quella del lavoro mal pagato “per cui ti offrono 120 euro per un reportage su Regeni, mentre direttori di giornale guadagnano fiumi di denaro stando seduti dietro una scrivania”.
E’ stata poi la volta dell’attivista africana Jaha Dukureh, citata dal Time Magazine fra le cento persone più influenti del mondo per il 2016. A conferirle questo ruolo la lotta condotta contro la piaga delle mutilazioni genitali femminili (MGF) ancora praticate in Africa e nel mondo. Un dramma vissuto sulla propria pelle e all’origine di “Safe Hands for Girls”, ente no profit dedito alla protezione delle giovani donne esposte a MGF, “donne vittime della cultura del silenzio – spiega Dukureh – sottoposte a pratiche che segnano profondamente la psiche oltre che il corpo”. E’ determinata Jaha nel sottolineare “quanto sia oggi importante educare le bambine a riconoscere che queste pratiche sono un mezzo di controllo sulle donne”. Nel suo paese, il Gambia, il 76% delle donne subisce tali mutilazioni, mentre in tutto il mondo le vittime sono oltre 200 milioni, “per questo – conclude – ho voluto creare una “sorellanza” fra donne del Gambia e altre nel mondo per rompere insieme il silenzio che oscura questo problema. Una scelta che mi è costata cara perché ho perduto affetti e amicizie, ma continuo a lottare perché ritengo non sia impossibile porre fine al fenomeno delle mutilazioni”.
Il deserto diventa poi lo scenario positivo di un’esperienza umana e culturale fuori dal comune con Francesca Truzzi e Davide Bortot operatori umanitari presso una ONG, i quali hanno pensato di portare il cinema là dove non arriva, ossia nei villaggi più sperduti del pianeta, gli stessi dove si svolge la loro azione umanitaria. A Bari Francesca Truzzi è giunta accompagnata da João Meirinhos, che ha fatto le veci di Davide assente per un’indisposizione. Entrambi hanno spiegato la scelta di creare momenti di promozione culturale e di intrattenimento utilizzando un mezzo in grado di far vivere alle persone forme di emozione condivisa. Il loro progetto è Cinéma du desert e si avvale di un Truck Team in viaggio su un camion che ha al suo attivo oltre 100 mila chilometri percorsi a 60 all’ora e attraversando oltre 29 paesi. “Abbiamo proiettato filmati per due o per migliaia di persone – dicono Truzzi e Meirinhos – viaggiando fra Africa e Mongolia, cercando di creare ponti fra culture e di sviluppare progetti di cooperazione”.
Applausi da star per Luca Parmitano, astronauta ESA e Tenente Colonnello dell’Aeronautica Militare, primo italiano ad aver compiuto attività extraveicolare nello spazio, che a Bari ha voluto raccontare la sua recente esperienza nelle viscere della terra di Sardegna, alla ricerca di ambienti e condizioni che per certi versi anticipano quelli con cui l’uomo dovrà misurarsi nelle future spedizioni su Marte, “pianeta che potrebbe celare nel suo sottosuolo insospettate forme di vita”, magari come quelle che popolano le nostre grotte, ambienti dal buio assoluto “in cui la vita segue processi evolutivi diversi da quelli di superficie”.
Accanto al buio deserto del sottosuolo – aggiunge Parmitano – esiste poi anche quello del fondo marino, al centro di un progetto che studia la migrazione dei coralli verso acque più profonde, così come quello delle aree vulcaniche studiate a Lanzarote col Progetto Pangea, anch’esso volto a conoscere meglio la Terra per prepararsi alla grande avventura marziana e al ritorno in quel “deserto assoluto dello spazio” già ben noto a Parmitano.
Un lavoro di comparazione, quello fra Terra e Marte, che vede coinvolta nelle zone più aride del pianeta anche la scienziata Rosalba Bonaccorsi, ricercatice presso il Nasa Ames Research Center e il SETI Institute, programma che ricerca possibili forme di vita extraterrestre. Per la studiosa “il deserto è una importante palestra per capire molte cose sul nostro pianeta Terra e per studiare da diversi punti di vista ambienti esterni ad esso”.
Estremamente coinvolgente il contributo del game designer americano Matt Nava, autore dei disegni per il videogioco Journey, prodotto indipendente rivelatosi più influente di un blockbuster considerati i premi vinti e i feedback entusiastici di quanti ne hanno rimarcato l’intensità poetica e un potere quasi terapeutico per l’anima. Nava ha infatti creato Journey per Thatgamecompany – il piccolo e pluripremiato studio di produzione fondato in California dal cinese Jenova Chen – come qualcosa che potesse trascendere il classico videogioco, sconfinando nei territori dell’arte.
Nava ha così immaginato la storia di un viaggio mitico alla ricerca delle proprie origini da parte di un essere di cui non si riconoscono i lineamenti, avvolto com’è in una enigmatica veste che impedisce di riconoscerne sesso, età, provenienza. In realtà è il simbolo di tutti noi che, attraverso metaforici deserti, vallate e spazi immensi, andiamo alla ricerca di noi stessi, piccoli di fronte alla grandezza dell’universo. In questo epico viaggio l’autore esalta però anche l’incontro del protagonista con un altro essere sconosciuto col quale stringe un silenzioso legame di mutuo soccorso.
L’arte applicata a temi globali è poi stato il trait d’union che ha accomunato gli ultimi due talk. Innanzitutto quello dell’artista Guido Segni alle prese con un progetto il cui sviluppo ipotetico dovrebbe avvenire nell’arco di un cinquantennio e volto a sensibilizzare sul tema della preservazione della memoria collettiva ai tempi della Rete. Un’opera di video-arte che immagazzina ed elabora le immagini del deserto acquisite da Google e conteggia la quantità di bytes finite nella rete ed esposte a un destino di “desertificazione della memoria” a fronte di una tecnologia in inarrestabile evoluzione, che rende sempre più inaccessibili i documenti creati con la tecnologia precedente. Insomma Segni ha trasferito sul piano artistico la recente affermazione di Vint Cerf, uno dei padri di Internet, secondo il quale, affidandoci esclusivamente al virtuale, rischiamo di lasciare dietro di noi un “deserto digitale” paragonabile al Medioevo, epoca di cui sappiamo relativamente poco a causa della scarsità di documenti scritti. Da qui il suo invito a stampare tutto ciò che di prezioso per noi intendiamo conservare.
Al tema dei danni ambientali da surriscaldamento globale si rivolge infine l’opera di Andreco, artista visivo italiano e studioso di ingegneria ambientale. Una osmosi continua di temi e suggestioni corre fra la sua professione e la sua arte che lo vedono impegnato in progetti tecnico-culturali nelle principali città del mondo, forte della convinzione che, come affermava il geografo Elisée Reclus, “l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa” per cui danneggiando la natura danneggeremo inesorabilmente noi stessi.
La serata ha visto, negli intermezzi, anche la proiezione di alcuni segmenti video del TED americano: potenti e suggestive le immagini della fotografa Camille Seaman che ha immortalato gli “ultimi iceberg” del circolo polare artico in tutta la loro complessa bellezza e fragilità. Monumenti naturali di migliaia di anni che hanno un peso determinante negli equilibri ecologici del pianeta e che a Bari sono stati evocati come simbolo di quegli ambienti naturali estremi che tanto spazio hanno avuto nel corso di questo TEDx. Molto interessante anche il contributo filmato del virologo statunitense Nathan Wolf che muovendo dall’interrogativo su cosa resti ancora da esplorare sulla terra, ha risposto “quasi tutto” alludendo sopratutto al mondo del’infinitamente piccolo, dai virus all’enigmatica “materia oscura” biologica la cui presenza all’interno del corpo umano è ormai una certezza scientifica.
L’incontro con il chitarrista e compositore nigeriano di etnia tuareg Bombino, apprezzato per doti che lo hanno fatto definire “il Jimi Hendrix del deserto”, avrebbe dovuto infine parlarci delle tendenze musicali capaci di ispirare le nuove generazioni africane, ma un malore improvviso dell’artista ne ha impedito l’arrivo a Bari. Al suo posto è salito sul palco il chitarrista italiano collaboratore di Jovanotti Riccardo Onori, che secondo programma avrebbe dovuto duettare con il musicista africano. Onori ha voluto rendere omaggio al collega assente eseguendo un suo brano e mostrando come la musica viva e respiri in simbiosi con l’ambiente in cui vive l’autore, in tal caso il deserto, riflettendone ritmi e atmosfere. All’insegna della musica anche il finale a sorpresa che ha visto in scena l’acclamato cantautore Vinicio Capossela, accompagnato dai musicisti Giovannangelo De Gennaro e Giuseppe Leone. Di passaggio in Puglia per presentare le date del prossimo tour, Ombra, l’artista ha eseguito il brano Non trattare, sulle cui note il TEDx ha rivolto al pubblico il suo ‘arrivederci’ alla prossima edizione.