Scoperto in Abruzzo un pino nero di 900 anni. Esisteva già al tempo di papa Celestino V

Gli studiosi raggiungono il Pino nero di 900 anni nel territorio di Fara San Martino (Ch) - Image by Parco Nazionale della Majella

Gli studiosi raggiungono il Pino nero (Pinus nigra) di 900 anni nel territorio di Fara San Martino (Ch) – Image by Parco Nazionale della Majella

di Redazione FdS

Dopo la meravigliosa quercia plurisecolare dell’Aspromonte, gli studiosi dell’Università della Tuscia (Viterbo), in collaborazione con il Parco Nazionale della Majella, hanno individuato in Abruzzo un altro dei grandi patriarchi della natura italiana. Si tratta di un esemplare di Pino nero (Pinus nigra), relitto di foreste primigenie di cui in Abruzzo rimangono testimonianze in una pineta nei pressi dell’abitato di Villetta Barrea (L’Aquila), alcune stazioni rupestri sulle pareti della Camosciara, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, e all’interno del Parco Nazionale della Majella nella Valle dell’Orfento, sulle pareti all’inizio della Valle di S. Spirito e soprattutto su quelle di Cima della Stretta, nel territorio di Fara San Martino (Chieti). E proprio in quest’ultima zona – come segnalato dal quotidiano La Repubblica – è stato individuato l’esemplare di cui gli abitanti favoleggiavano da sempre facendolo risalire ai tempi del celebre papa Celestino V. La presenza di questi pini in Abruzzo è infatti sempre stata nota agli abitanti locali, ma fu segnalata scientificamente la prima volta solo a partire dalla prima metà del 1800 grazie al botanico napoletano Michele Tenore che nel 1831 ne citò la presenza, anche se solo nella valle dell’Orfento.

Per raggiungere l’antichissimo pino gli studiosi si sono dovuti calare, con attrezzatura da alpinisti, nel burrone che digrada alla Cima della Stretta, ma finalmente sono riusciti a dare un ”volto” a quello che sembrava essere solo un mito ispiratore di versi e leggende. Lo hanno trovato in una piccola formazione boscosa composta da sei esemplari della stesse specie, sospeso lungo la falesia con le radici abbarbicate nella roccia a sostenerne la peraltro notevole mole. Dei vari tronchi il più grande è risultato dotato di una circonferenza di 3,91 metri e sottoposto a carotaggio con successiva analisi dendrocronologica eseguita dai laboratori della Facoltà di Scienze Forestali dell’Università della Tuscia, è risultato avere un’età di 900 anni. Una ”leggenda” vivente che si candida ad essere uno degli esseri più longevi d’Abruzzo.
 

Le vicine Gole di Fara San Martino

Le vicine Gole di Fara San Martino – Ph. Matteo Bignozzi | ccby-sa2.0

Ricercatissimi da sempre per il legno e per la resina questi pini sono sempre stati preda prediletta dai boscaioli di Fara San Martino, pronti a calarsi in modo temerario, a rischio della vita, lungo i precipizi. L’impiego privilegiato era quello del legno per le navi e per ricavarne fiaccole (tede) dai rami resinosi, usate già nell’antichità in riti sacri e cerimonie nuziali. E’ evidente dunque che questo esemplare sia riuscito a sopravvivere grazie alla sua posizione particolarmente impervia, dove lo hanno ritrovato Luciano Di Martino, direttore del Parco della Majella, e Alfredo Di Filippo, docente di botanica presso l’Università della Tuscia. Delle due sottospecie di pino nero – il Pinus nigra laricio, molto diffuso in Calabria, e il Pinus nigra nigra (nelle due varianti italica Hochst e austriaca Loud) – l’esemplare identificato a Fara San Martino – ha spiegato Di Martino – appartiene alla seconda, nella sua variante Italica.

MITI E TRADIZIONI LOCALI SUL PINO NERO

Questo straordinario ritrovamento offre l’occasione per ricordare come i Pini neri avessero una particolare sacralità soprattutto nel culto della Grande Madre Cibele e del dio Attis, diffusosi verso occidente dall’Asia Minore e praticato presso Greci e Romani, caratterizzato da uno sfrenato orgiasmo connesso al risorgere della vegetazione in primavera. Per cui nell’antichità, soprattutto nelle zone montuose, non era raro che ci fossero veri e propri boschi sacri destinati al culto, poi soppiantato da altre forme di religiosità con l’avvento del Cristianesimo. Il legame tra il pino e gli antichi riti legati al ciclo vegetativo e quindi alla fertilità, passava – come ben sanno gli antropologi – dalla compresenza sull’albero dei frutti maturi (strobili) e di quelli ancora in fase di maturazione, così come dalla abbondante presenza di polline, emblema a sua volta del potere fecondativo maschile, evocato anche dalla simbologia fallica dell’albero. Non è raro del resto ritrovare nell’iconografia antica figure di satiri (personificazione della fertilità e della forza vitale della natura) con la testa coronata di aghi di pino (v. foto seguente).
 

Satiro e baccante, affresco dalla Casa di Lucio Cecilio Giocondo, Pompei, I° sec. d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Satiro e baccante, affresco dalla Casa di Lucio Cecilio Giocondo, Pompei, I° sec. d.C., Museo Arch. Nazionale di Napoli

Date queste premesse non è un caso dunque se – come riporta Aurelio Manzi nel suo “Piante sacre e magiche in Abruzzo” (ed. Rocco Carrabba) – i rami di pino nero, ricchi di resina, comparivano nella processione notturna del Venerdì Santo a Fara San Martino, venendone adornata la statua del Cristo morto oltre che utilizzati per ricavarne torce da accendere durante il rito (quest’ultimo uso figurava anche nell’ormai scomparsa festa della Madonna del Suffragio). Si aggiunga – riferisce ancora il botanico abruzzese – che quei rami venivano raccolti dai giovani del posto, in una sorta di competizione che li spingeva a calarsi negli orridi della Majella pur di recuperarli, circostanza che potrebbe lasciar supporre il retaggio sincretistico di qualche remoto rito di iniziazione, magari legato proprio alle divinità di Cibele e Attis, considerato che quest’ultimo muore evirato sotto un pino e poi risorge.

Ma i legami del pino nero con le tradizioni locali non finiscono qui. Sempre Manzi ricorda come nel IV sec. d.C. Sulpicio Severo, biografo di san Martino di Tour da cui deriva il nome del borgo abruzzese, scrivesse che il santo aveva distrutto un tempio pagano sollevando le ire della popolazione locale, quando accingendosi anche ad abbattere un pino ritenuto sacro gli abitanti gli imposero di esporsi alla caduta dell’albero in un determinato punto, in modo da verificare se il nuovo dio sarebbe accorso in suo aiuto. Inutile dire che il pino precipitò dal lato opposto risparmiando il santo tra lo stupore delle gente. Il pino compare inoltre nei versi di Cesare De Titta,  autore di componimenti in italiano, latino e vernacolo abruzzese, che in una sua poesia scritta agli inizi del ‘900 narra la storia di un giovane che come prova d’amore verso una fanciulla si calò lungo gli strapiombi per recidere un grande pino ma nell’impresa perse la vita.

Ancora una volta un intreccio straordinario di natura e cultura che in Italia, come in pochi altri luoghi al mondo, celebra la sua apoteosi.

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