CALABRIA | Si trova al MET di New York il fonte battesimale ”perduto” del Patirion di Rossano, gioiello d’arte bizantino-normanna

La Conca del Patirion, fonte battesimale in marmo pentelico (XI sec.), metropolitan Museum, New York

La Conca del Patirion di Rossano (Cs), fonte battesimale (68×62 cm) in marmo pentelico (XII sec.), Metropolitan Museum, New York

di Rocco Mazzolari

In Calabria, su un pianoro di una delle numerose propaggini montane della Sila Greca protese sulla fascia costiera fra Rossano e Corigliano, a breve distanza dall’ampia vallata in cui scorre il Crati prima di sfociare nel Mar Jonio, sorge in solitudine mistica la bellissima Abbazia di Santa Maria del Patìr, nota anche come Patìrion. Fra le più importanti testimonianze architettoniche legate al monachesimo di origine greca nell’Italia Meridionale (affermatosi soprattutto a partire dall’VIII sec. sulla scia della lotta iconoclasta) , il complesso fu fondato nel 1095 dal monaco calabrese Bartolomeo di Simeri, grazie al sostegno di alcuni patrizi normanni, e venne dedicato a Santa Maria Nuova Odigitria. Nel 1105 il Pontefice Pasquale II concesse all’abbazia il diritto di immunità dalla giurisdizione vescovile e sotto i Normanni divenne uno dei più ricchi e importanti monasteri del Sud. Esso ebbe inoltre un ruolo di primo piano nella conservazione di testi dell’antichità grazie ad una ricca biblioteca e ad uno scriptorium dove monaci amanuensi si occupavano della trascrizione di antichi codici. Per il complesso purtroppo, a partire dal XIV sec., iniziò un lungo periodo di decadenza fino alla soppressione del monastero nel 1809 sotto i Francesi.

Da questo luogo, dove fra l’altro si conserva uno splendido pavimento a mosaico del XII secolo con animali reali e mitologici, proviene quel piccolo gioiello di arte normanna di matrice bizantina noto come Conca del Patirion, oggi custodito presso il Metropolitan Museum di New York dove è visibile nella Galleria 304 dedicata all’arte dell’Europa medievale. Si tratta di un fonte battesimale in marmo pentelico (lo stesso usato per il Partenone, proveniente dall’omonimo monte nei pressi di Atene) che era dato per perduto, almeno fino a quando nel 1985 la storica dell’arte Emilia Zinzi, studiosa calabrese docente al Politecnico di Milano e all’Università di Reggio Calabria, non lo ha identificato fra le collezioni del museo americano. Il ritrovamento avvenuto durante uno studio sul monachesimo basiliano e sugli insediamenti monastici italo-greci d’epoca normanna nel Sud Italia, è stato pubblicato in “La Conca del Patirion (1137): Un recupero e alcune considerazioni sulla cultura figurativa dei monasteri italo-greci del sud in età normanna” sulla Rivista Storica Calabrese 6, nos. 1-4 (1985).

Come molti oggetti d’arte antica del nostro patrimonio, trasvolati oltreoceano a causa di un collezionismo privato spesso fautore di razzie di ogni genere, la Conca del Patìrion già presente nella chiesa allora appartenente ai Baroni Compagna di Corigliano – è approdata nel grande museo newyorchese nel 1917 a seguito della donazione di John Pierpont Morgan celebre banchiere statunitense di origine ebraica nonché, secondo la rivista Forbes, cinquantanovesimo uomo più ricco di tutti i tempi. Morgan fu anche collezionista d’arte, di libri e pietre preziose, patrimonio in gran parte donato al Metropolitan Museum o confluito nella straordinaria Pierpont Morgan Library, con sede sempre a New York.

Di questo oggetto, sessant’anni prima del ritrovamento, aveva già parlato, fra gli altri, il grande archeologo roveretano Paolo Orsi, il quale nella rivista Bollettino d’Arte (1923 – XII) scrive: “un pezzo veramente ragguardevole e misteriosamente scomparso esisteva un tempo al Patìrion; trattasi di una conca marmorea, non sappiamo bene se battesimale, o pila dell’acqua santa. Essa ha subito delle strane vicende, ed è sparita creando una leggenda. Non ho trovato a Corigliano persona che ricordasse di averla vista, ma di essa vi è un vago e confuso ricordo nei libri, donde nacque la leggenda, che oltre mezzo secolo addietro essa fosse stata venduta per molte migliaia di lire a Parigi, dove io invano ne feci ricerca. Il guaio si è che il bacino non venne mai descritto, nè figurato dai vecchi scrittori, i quali si occuparono soltanto della iscrizione che lo decorava (…)”. Dopo un’accurata ricerca abbiamo però appurato come in realtà la conca marmorea di Rossano sia stata raffigurata dal pittore prussiano Franz-Ludwig Catel (1778-1856) che nel 1811 accompagnò in Italia Aubin-Louis Millin (1759-1818), archeologo e conservatore del Cabinet des Médailles della Bibliothèque impériale, con l’incarico di disegnare i paesaggi attraversati e i monumenti visitati. Giunto in Italia, Millin scelse di spingersi ben oltre Napoli e di esplorare la Calabria dove fino ad allora solo pochi visitatori avevano fatto qualche incursione e tra i disegni di quel viaggio se ne conservano appunto alcuni riferibili al Patìrion di Rossano, tra cui quello raffigurante la conca marmorea con la sua iscrizione (v. foto seguente).
 

Franz-Ludwig Catel, Vase de marbre dans l’Eglise de Patère, XIX sec. – Bibliothèque nationale de France, Paris

Nel suo articolo Orsi fa inoltre riferimento (pubblicandone le immagini) ad un esemplare analogo proveniente dal Monastero del Santissimo Salvatore “in lingua phari” di Messina, importante cenobio del monachesimo italo-greco in Sicilia, al quale deve ricondursi anche la committenza della conca di Rossano. Infatti nei 4.4 cm. di bordo di quest’ultima, si legge la seguente iscrizione: Nel tempo dell’illustre Re Ruggero, il santissimo Luca, essendo stato insignito del governo dei monaci, ha fatto realizzare questo vaso nell’A.D. 1137“.

Il “Luca” di cui si parla nell’iscrizione altri non è che l’archimandrita [termine che indica il superiore in un monastero, soprattutto nelle chiese cristiane orientali] prima del Patírion di Rossano, e poi del SS. Salvatore di Messina, dove fu trasferito per volere del re normanno Ruggero II.  Monaco santo di tradizione italo-greca (detto San Luca di Messina), il rossanese Luca era stato discepolo di san Bartolomeo di Simeri fondatore del Patirion. Nominato da Re Ruggero II Archimandrita del SS. Salvatore, con il nome di Luca I, fu considerato “Pater et Prelatus abbatum”, padre e capo degli egumeni (abati) dei monasteri affiliati. L’Abbazia messinese del Santissimo Salvatore, che era stata trasformata dal re in Archimandritato con decreto del 1131, ebbe infatti una giurisdizione su oltre 60 monasteri di tradizione italo-greca situati in Sicilia e Calabria, fra cui anche quello di Rossano. Nell’intento del dominatore normanno vi era infatti la necessità, soprattutto politica, di organizzare in una grande federazione il monachesimo bizantino italo-greco, superstite dalla dominazione bizantina in Sicilia e nel mezzogiorno italico.

Gli studiosi ritengono che la vasca battesimale del Patírion, così come quella analoga del SS. Salvatore (oggi al Museo Regionale di Messina) e altri pezzi conservati nella città siciliana, possa ricondursi all’opera di Gandolfo – scultore il cui nome è espressamente citato sulla vasca del SS. Salvatore – e della sua bottega. Entrambe le vasche presentano eloquenti iscrizioni che alludono alla committenza di Luca così come la datazione, 1135 per quella siciliana, 1137 per quella di Rossano, nella quale è menzionato anche il re Ruggero II. Ma chi era Gandolfo?

Sicilia - La conca del SS. Salvatore, scolpita da Gandolfo, XII sec., Museo Regionale, Messina (foto edita da Paolo Orsi)

Sicilia – La conca del SS. Salvatore, scolpita da Gandolfo, XII sec., Museo Regionale, Messina (foto pubblicata da Paolo Orsi nel 1923)

Si tratta di un artista occidentale che riprende decorazioni come nastri bisolcati, tralci con fogliame intrecciati e conclusi con gigli, pigne e palmette intorno a una croce di Malta su un recipiente dalla desueta forma a calice, espressioni di un indirizzo artistico riscontrabile in modo abbastanza costante in un gruppo di manufatti le cui caratteristiche fanno ipotizzare l’esistenza di un’officina legata al monastero messinese ed affezionata agli stilemi della persistente tradizione bizantina. Va infine aggiunto che la conca marmorea messinese firmata da Gandolfo, rispetto a quella di Rossano, presenta in più quattro teste umane agli angoli, ma entrambe mostrano affinità con altri esemplari francesi e britannici. In particolare, l’elemento delle 4 teste ricorre in altre conche presenti in Lussemburgo e in esemplari francesi, confermando l’impronta nell’esemplare messinese di influssi nordici, matrice ravvisabile anche nel nome straniero dello scultore, italianizzato in Gandolfo. Si tratterebbe di una componente riscontrabile anche in altri oggetti conservati al Museo Regionale di Messina, la quale sembra attingere a repertori romanici propagati nell’Italia meridionale.

Fra i primi ad esprimersi sulla matrice nordica dello scultore Gandolfo, troviamo sempre Paolo Orsi che osserva: “Il nome di questo scalpellino, più che scultore, non suona grecamente e non è affatto bizantino; e nemmeno si direbbe latino, cioè italico, ma piuttosto esotico. Comunque sia, assieme al “protomagister Girardus Francus” esecutore del lavori della chiesa normanna di S. Pietro e Paolo a Forza di Agrò [località siciliana – NdR], abbiamo due nomi di artisti nordici, ma in ogni modo latinizzati, il che dimostra come accanto alle maestranze arabe e bizantine, attivissime e preponderanti sotto i normanni, si fossero infiltrati anche elementi nordici, attratti dai nuovi signori. Il nome di Gandolfo potrebbe anzi in qualche guisa spiegare il carattere barbarico delle teste della nostra conca [quella di Messina – NdR] e quello romanico degli ornamenti, e dà ragione ad un noto storico dell’arte, tedesco [Springer – NdR], che nell’ arte normanna riconobbe anche taluni elementi nordici” (Cfr. op. citata).

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