Ad attrarre l’attenzione del geologo Amerigo Giuseppe Rota una struttura a emiciclo emergente da un terreno agricolo. La suggestiva ipotesi, tutta da verificare, che possa trattarsi delle tracce di un teatro greco della città arcaica
di Redazione FdS
«C’era una grande città, moltissimo celebrata, maestosa, opulenta, bella, denominata Sibari dal fiume Sybaris»
Scimno di Chio, II sec. a.C.
Parlare della Sibari archeologica significa muoversi in un campo minato, sia per via della complessità della sua storia antica – alla città arcaica, fondata nell’VIII sec. a.C. da coloni Achei e distrutta dai Crotoniati nel 510 a.C. seguì la costruzione, più a sud, della città panellenica di Thurii voluta nel 444-443 a.C. dall’Atene di Pericle, poi convertita in colonia romana con il nome di Copiae nel 193 a.C. – sia per la repentina trasformazione morfologica che la pianura alluvionale sibarita ha subito nel corso degli ultimi tre millenni, solo in parte riscontrabile sulle mappe storiche; mutamenti che sicuramente hanno ostacolato il recupero di ciò che potrebbe essere rimasto delle strutture della città arcaica, della quale pochissime tracce sono emerse dagli strati più profondi di alcune delle aree archeologiche finora identificate. Tuttavia rimane quanto mai affascinante provare a recuperare testimonianze fisiche più consistenti di un luogo impostosi nella memoria collettiva quale massimo emblema della raffinatezza espressa dalla civiltà magno-greca; una delle poche città del mondo antico in grado di vantare uno status di metropoli ante-litteram (autori antichi come Diodoro Siculo parlano di una popolazione superiore a 300 mila abitanti, mentre Erodoto racconta di come la città fosse circondata da una cinta muraria di circa 9 chilometri); un luogo la cui magnificenza – secondo la tradizione – trovò espressione anche nella portata del suo potere politico esercitato su quattro tribù e 25 città.
BREVE NOTA SUGLI SCAVI
L’esplorazione scientifica del territorio, volta alla riscoperta dell’antica Sibari, iniziò nel 1879 ma due anni dopo, con il ritrovamento della necropoli ellenistica di Thurii, si interruppe per mancanza di fondi. Ripresa con difficoltà nel 1932, assunse un carattere di sistematicità solo nel 1967, proseguendo senza sosta per circa un decennio e rivelando la complessa stratigrafia dei luoghi. A fasi alterne si è tornato a scavare anche nei decenni successivi. Le aree indagate, ubicate nel territorio comunale di Cassano allo Ionio, sono oggi quelle dei cantieri denominati Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca e Stombi, che hanno restituito cospicue tracce di Thurii e Copiae, mentre tracce della città arcaica, rinvenute in alcune parti più profonde della stratigrafia, sono rimaste estremamente limitate. I reperti mobili recuperati nei suddetti cantieri di scavo sono custoditi nell’adiacente Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide.
IPOTESI SULLA CITTA’ ARCAICA. UNA RECENTE SCOPERTA DA APPROFONDIRE
Un contesto territoriale caratterizzato da un assetto idrogeologico modificatosi nel corso dei secoli – a cominciare dalle variazioni subite dal corso stesso dei due fiumi (il Sybaris e il Crati) tra i quali le fonti vogliono fosse collocata la Sibari arcaica -, ha reso quindi estremamente difficile definire i confini della primigenia area di sviluppo urbanistico, sebbene i dati archeologici noti ci dicano che nei siti finora identificati si è in presenza di alcuni punti di intersezione fra le tre città. Tuttavia, una recente scoperta, fatta dal geologo cosentino Amerigo Giuseppe Rota, potrebbe forse contribuire in maniera significativa ad aggiungere un importante tassello alla ricostruzione dell’assetto urbano della prima polis. Essa collocherebbe infatti il cuore della città arcaica a circa 7 km a nord-ovest dell’attuale parco archeologico, notoriamente ubicato più a sud, a breve distanza dalla foce del fiume Crati. Nell’attesa che le autorità competenti si esprimano procedendo alle opportune verifiche, Rota ha deciso di pubblicare un suo studio geoarcheologico basato sull’analisi dell’assetto idrogeologico dell’area nonché su fonti letterarie e cartografiche antiche, studio col quale attribuisce una buona dose di plausibilità all’ipotesi che la città arcaica avesse la sua area centrale decisamente più a nord del sito successivamente occupato dalle città di Thurii e Copiae. È apparso sul secondo numero del 2022 di Geologia tecnica & ambientale, rivista quadrimestrale edita dall’Ordine Nazionale dei Geologi, in occasione della cui uscita Rota ha tenuto un webinar di presentazione della sua tesi patrocinato dal Consiglio Nazionale dei Geologi. Vediamo di riassumerne i passaggi principali.
UNA STRUTTURA A EMICICLO. SI TRATTA DI UN TEATRO?
Durante alcune sue ricerche sugli antichi tracciati viari romani nel nord della Calabria, Rota si è casualmente imbattuto in alcune strutture murarie emergenti dalla superficie di un terreno privato ubicato al centro della Piana di Sibari, in Contrada Fornara, tra le colline di Cassano allo Ionio e il mare, a pochi chilometri dalla stazione ferroviaria dell’odierna Sibari. Si tratta di una struttura di inequivocabile origine antropica dalla forma planimetrica ad emiciclo del diametro di circa 100 mt con una corda di circa 37.5 mt, una forma sospetta che farebbe pensare alla presenza di un teatro. Non a caso, dopo aver effettuato un rilievo topografico tramite LIDAR, Rota ha eseguito un raffronto planimetrico tra quanto affiorante in c.da Fornara e i teatri greci di Segesta (Sicilia) e di Mileto (attuale Turchia), cogliendo fortissime analogie.
Sebbene il muro attualmente emergente dal terreno sembri essere stato rimaneggiato in epoca più recente, al suo interno presenta dei blocchi calcarei lavorati forse riconducibili all’antico teatro, edificio i cui muri portanti – secondo l’ipotesi di Rota – potrebbero essere imprigionati nel sottosuolo facendo da fondamenta alla struttura visibile all’esterno; questo spiegherebbe l’andamento planimetrico a emiciclo rimasto intatto nonostante il probabile riutilizzo delle strutture emergenti. Blocchi calcarei lavorati sono inoltre riscontrabili tra i materiali presenti sul suolo presumibilmente caduti dalla struttura superstite: tra questi, il geologo segnala in particolare un blocco che potrebbe essere stato in origine la base o la sommità di una colonna e quella che sembra la porzione di un sedile di un tipo simile a quello rinvenuto nella parte alta del teatro di Segesta.
Interessante anche la riscontrata segnalazione di tale struttura a emiciclo su due carte topografiche dell’ing. Astarita (del 1759 e del 1789), l’una custodita a Napoli presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, l’altra presso l’archivio della Diocesi di Cassano allo Ionio; sulla più recente compare anche il toponimo “Porta Vecchia” possibile allusione ai resti, ormai perduti, di un varco nella celebre cinta muraria di Sibari arcaica.
Per provare a immaginare come potessero presentarsi gli affioranti resti agli occhi di un osservatore di tre secoli fa, Rota ha realizzato un fotomontaggio sovrapponendo alla foto reale del sito di C.da Fornara la porzione superiore del teatro di Segesta. Ne è emersa un’immagine decisamente suggestiva a supporto dell’ipotesi del teatro, ma – spiega il geologo – per constatare la effettiva presenza nel sottosuolo di resti architettonici antichi, saranno determinanti le tracce delle tomografie elettriche o dei rilievi georadar che sarebbe opportuno realizzare prima di qualsiasi scavo volto a raggiungere l’originario piano campagna presumibilmente collocato a diversi metri di profondità.
Se l’ipotesi dovesse rivelarsi fondata – afferma Rota – è probabile che ci si trovi di fronte all’area di insediamento delle principali opere urbane della città: l’agorà, il teatro, i principali luoghi di culto e altri monumentali edifici collegati al pulsante cuore politico, economico e sociale dell’antica polis. La verifica di tali strutture da parte delle autorità competenti si impone dunque con la massima urgenza, onde prevenire qualunque rischio di manipolazione di un luogo che, trovandosi in aperta campagna, è esposto alla possibile azione di malintenzionati.
LE FONTI STORICO-LETTERARIE
Lo studio pubblicato da Rota si è soffermato anche sulle fonti antiche che menzionano la distruzione di Sibari e la fondazione di Thurii, al fine di analizzare il prospettato rapporto tra le due città. A tal proposito i due autori di riferimento sono il geografo Strabone e lo storico Diodoro Siculo (I° sec. a.C.). Dopo due tentativi (nel 476 e nel 453 a.C.) – compiuti dai sibariti sopravvissuti alla distruzione della città da parte di Crotone – di ricolonizzare i resti dell’antica polis, purtroppo falliti a causa dell’intervento della città nemica, “gli Ateniesi – racconta Strabone – trasportarono la città in un altro luogo vicino alla fonte chiamata Turio”, racconto che trova riscontro nella ricostruzione di Diodoro Siculo: “Gli Ateniesi, guidati da Lampone e Xenocrito seppero dall’oracolo d’Apollo a Delfi che avrebbero dovuto fondare una città nel luogo in cui avrebbero bevuto acqua con misura…e avrebbero mangiato pane senza misura…a poca distanza da Sibari trovarono una fonte chiamata Thuria…qui fondarono una citta chiamata Thurion dal suo nome”. Erano dunque passati circa dieci anni dall’abbandono definitivo della città arcaica e fu predisposta una nuova fondazione che – argomenta Rota – difficimente avrebbe richiesto la consultazione dell’oracolo di Delfi se si fosse previsto di costruire la nuova polis sullo stesso sito della vecchia Sibari. Che Thurii fosse un sito di nuova edificazione, almeno per la sua maggior parte, sembra suggerirlo anche quanto ulteriormente scritto da Diodoro: “Divisero la città in 4 plateiai [strade] nel senso della lunghezza che chiamarono Heracleia, Aphrodisia, Olimpia e Dionisias mentre, nel senso della larghezza, la ripartirono in 3 plateiai chiamate Hera, Thuria e Thurina. Quando gli stenopoi [strade strette] furono riempiti di case la città apparve opportunamente pianificata”.
IL SITO DI SYBARIS SECONDO LA CARTOGRAFIA ANTICA
Tra le testimonianze storiche considerate da Rota troviamo anche alcuni esempi di cartografia antica. “Non sono carte geografiche dettagliate e precise dal punto di vista plano-altimetrico come le intendiamo noi oggi – afferma Rota -, anzi da quel punto di vista sono carenti di informazioni e grossolane nel mantenere le proporzioni delle distanze ma riportano dei dettagli fisiografici interessantissimi.” Abbiamo già accennato alle carte topografiche settecentesche dell’Astarita per quanto concerne la remota conoscenza dell’emiciclo e la presenza, nei pressi, dell’interessante toponimo “Porta Vecchia”; esistono però alcune carte di epoca anteriore che possono offrire interessanti spunti sull’ubicazione di Sybaris.
La più antica, realizzata dal cosmografo perugino Ignazio Danti, risale alla seconda metà del ‘500 e si trova in Vaticano, nella celebre Galleria delle Carte Geografiche: in essa si nota come l’attuale torrente Raganello che ha foce nel Mar Jonio, fosse allora un affluente del fiume Sybaris (l’attuale Coscile); questo significa – dice Rota – che, approssimativamente, il tratto finale dell’odierno Raganello coincide con l’antico tratto finale che il fiume Coscile ebbe almeno fino all’epoca di creazione della carta. Da ciò si evince che il limite più settentrionale della polis arcaica (compresa appunto, secondo le fonti, tra il Coscile e il Crati), anche per ragioni geologiche, non può andare oltre l’attuale alveo del torrente Raganello.
Interessante è anche la carta seicentesca dell’olandese Caesius in cui si nota innanzitutto indicato l’insediamento di Civita Medonia, ubicato nei pressi della foce originaria del Coscile ma, come confermato dalle mappe successive, scomparso a un certo punto dalla storia probabilmente – secondo Rota – a causa di un fenomeno di erosione della costa dovuta al mancato ripascimento del litorale in conseguenza del mutato corso del fiume Coscile che tra la fine del ‘600 e la prima metà del ‘700, si avvicinò progressivamente al Crati fino a diventarne affluente [non è un caso che già la carta di Prospero Parisio del 1589, ripresa nel 1691 dal cappuccino Giovanni Fiore nella sua opera Della Calabria Illustrata (v. foto sotto), ci mostri il Coscile ormai separato dal Raganello e con il corso spostato in direzione sud, sebbene non ancora confluente nel Crati come invece sarebbe apparso nella carta dell’Astarita del 1759; una ”migrazione” favorita da fenomeni alluvionali e terremoti che, a seguito della confluenza tra i due fiumi, ebbe come conseguenza un sensibile sviluppo del delta del Crati, come si può ricavare dalla stessa cartografia. “Secondo gli studi dei rilievi bato-litologici effettuati dalla Commissione degli studi sul regime dei litorali del Regno nel periodo compreso tra 1936-1939, il bacino idrografico del fiume Coscile – spiega Rota – si sarebbe mantenuto completamente indipendente sino al 1727 anno a cui risalirebbe appunto la confluenza con il Crati”, confluenza chiaramente attestata nelle carte sette-ottocentesche].
L’elemento però più immediatamente suggestivo della carta del Caesius (v. foto sopra) è la dicitura “Sibari rovine”, che potrebbe sottendere molto di più della mera evocazione simbolica di un luogo scomparso e che risulta, forse non a caso, collocata più a ridosso dell’antico corso del Coscile che del Crati nei pressi della cui foce si trova invece l’attuale parco archeologico; del resto secondo la tradizione sarebbe stato proprio il fiume Sybaris (l’attuale Coscile) a dare il nome alla città sorta nei suoi pressi.
La suddetta indicazione cartografica ritorna, nello stesso punto ma nella forma “Antica Sibari”, nel celebre Atlante Geografico del Regno di Napoli del Rizzi Zannoni (1788) (v. foto sopra), riapparendo poi nelle varianti “Resti di Sibari” nell’ottocentesco Atlante Geografico delle Due Sicilie di Moina e Stanchi, con le incisioni di Pietro Manzoni (v. foto seguente),
e “Rovine di Sibari” sulla carta (1860) delle Circoscrizioni Ecclesiastiche del Regno delle due Sicilie (v. foto seguente). Gli autori di queste carte, in cui l’indicazione figura collocata sempre nell’area nord della Piana di Sibari, si mostrano – osserva Rota – sicuri che i resti rilevati fossero di Sybaris e non di Thurii o Copiae che all’epoca erano ancora sepolti nel sottosuolo della località poi diventata nota come Parco del Cavallo.
LA SFIDA DELLA CONOSCENZA
A completare l’esposizione di queste osservazioni è l’idea – espressa da Rota nel suo studio – che la geoarcheologia possa dare un notevole contributo alla ricerca storica e archeologica, specie quando reperti di antiche infrastrutture sono sepolti nel sottosuolo e la documentazione storica è carente. L’input è dunque lanciato; saperlo cogliere è compito ora delle autorità competenti e degli archeologi, nel doveroso tentativo di risolvere uno dei più complessi ”casi” dell’archeologia mediterranea. Del resto, se ad un’attenta indagine il luogo segnalato dovesse restituire tracce della polis arcaica, certo se ne gioverebbe in modo straordinario il patrimonio culturale italiano ma soprattutto la ricerca scientifica impegnata da oltre un secolo, anche se a fasi alterne, intorno a uno dei luoghi più affascinanti dell’antichità.
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speriamo si cominci una campagna scavi