In questi giorni mi sono immersa nella lettura del catalogo di una delle più importanti mostre archeologiche realizzate di recente in Calabria: Le Spose e gli Eroi. Un’esposizione interessantissima, curata dalla dott.ssa Maria Teresa Iannelli e dal dott. Vincenzo Ammendolia, che mi ha subito rapita per bellezza e rilevanza storica dei reperti esposti e, soprattutto, per il suo elevato profilo culturale e artistico. La lettura del volume (curato da M. T. Iannelli e C. Sabbione, coedito da Sistema Bibliotecario Vibonese e Adhoc Edizioni, Vibo Valentia), che vi consiglio di procurarvi, mi ha dato l’occasione per approfondire alcuni aspetti interessanti, oltre a darmi conferma di quanto ricco e particolare, ma anche poco conosciuto, sia il patrimonio archeologico calabrese. Non potevo quindi non coinvolgere gli affezionati lettori di Famedisud in questo viaggio nel passato, che mi ha tanto entusiasmato e appassionato trascinandomi più di una volta tra le sale del meraviglioso Museo Archeologico Statale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia.
La consapevolezza del grandissimo valore storico-archeologico delle testimonianze lasciateci dall’antica Magna Grecia, ha fatto sì che nell’ultimo secolo si conducessero con grande passione e sete di conoscenza verso il più remoto passato, importanti campagne di ricerche, con lo scopo di far riemergere testimonianze riguardanti le grandi poleis (‘città’) fondate lungo la costa ionica della Calabria nelle prime fasi della colonizzazione greca (dall’VIII sec. a.C. in poi).
La mostra Le Spose e gli Eroi è stata allestita lo scorso dicembre, ed è rimasta visitabile fino a marzo 2015, all’interno del Castello Normanno di Vibo Valentia, sede appunto del Museo Archeologico di Vibo, per offrire al vasto pubblico l’imperdibile occasione di visitare una straordinaria rassegna di tutti i più rappresentativi reperti in bronzo e in ferro, per lo più di recente rinvenimento, provenienti dall’interno delle aree sacre e delle necropoli degli insediamenti archeologici della Calabria greca.
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Il ferro e il bronzo, metalli il cui uso ha segnato importanti passaggi evolutivi della civiltà umana, con grande perizia tecnica e maestranza vennero – nell’epoca che stiamo considerando – trasformati, forgiati, incisi ed elaborati con decorazioni per la realizzazione di manufatti, che richiedevano tecniche complesse e onerose. Dunque il ritrovamento di tali materiali in metallo è fondamentale per ricostruire non solo gli aspetti della vita religiosa, agricola o comunitaria nell’antichità, ma anche per stabilire le antiche tecniche della loro lavorazione, la cui complessità era ricondotta ai racconti mitici di cui era protagonista il dio Efesto. In Magna Grecia inoltre, essi rappresentarono spesso la divisione per generi della società, che ai nostri occhi risulta di impronta maschilista, ma in cui i ruoli femminili ebbero in realtà un rilievo significativo, come ad es. nei riti matrimoniali delle giovani spose.
I reperti sono stati collocati in modo sapiente e incisivo all’interno di grandi vetrine poste lungo il vasto salone del piano superiore del museo, il cui spazio è scandito da imponenti arcate realizzate in modo suggestivo in occasione dei lavori di recupero funzionale del castello. Sono stati messi in evidenza i santuari e le necropoli della grande polis Locri Epizefiri e delle sue subcolonie di Medma, l’attuale Rosarno (con figurine in bronzo appena rinvenute nei nuovi scavi di Calderazzo) di Hipponion, l’attuale Vibo Valentia (in cui hanno avuto eccezionale risalto le armi e gli altri bronzi votivi recuperati nel santuario di via Scrimbia), di Crotone e del territorio di Sibari.
La sorprendente ed eccezionale presenza di offerte votive di materiale metallico nella stipe votiva ritrovata a Vibo Valentia in località Scrimbia può considerarsi la ragione scientifica primaria dell’ideazione della mostra. I primi rinvenimenti risalgono alla metà degli anni Settanta, con il recupero di statuette e vasetti in occasione dello sbancamento per la costruzione di un edificio. Gli scavi successivi misero in luce due ricchissimi depositi votivi denominati A e B.
I manufatti qui emersi rappresentano diversi ex voto, vasellame per bere e per versare, bacili, vasi attici a figure rosse, statuette fittili in terracotta, ceramica d’importazione corinzia e ceramica attica a figure nere e cospicui oggetti in bronzo di ornamento e per la cosmesi, decorati con delicati motivi e nella maggior parte dei casi provenienti da officine dell’Oriente Mediterraneo. Nel santuario di Scrimbia è stato individuato anche un complesso di armi difensive unico in Magna Grecia, risalenti al VI sec a. C: elmi di tipo calcidese con decorazioni incise, scudi dotati di impugnature decorate a sbalzo con scene mitiche e schinieri. Probabilmente in esse si individua una forma di devozione maschile raffinata e prestigiosa da parte di fedeli di alto rango sociale, presumibilmente giovani che svolgevano rituali di accesso all’età adulta e di riconoscimento di pieni diritti di politai (cittadini). Queste sono dedicate a una divinità maschile dall’appellativo di Epimachos (“che aiuta in battaglia”), forse identificabile con Hades, il cui culto a Scrimbia si affiancava a una divinità femminile identificabile con Kore-Persefone, che nelle città locresi presiedeva ai rituali di iniziazione delle giovani donne prossime spose, caratterizzati dalle offerte di pinakes (tavolette figurate) e di statuette in terracotta. Alla caratterizzazione “eroica” si riferisce anche l’offerta di un vaso, un’idria calcidese decorata con la partenza di Anfiarao per la guerra contro Tebe.
Parallelo al mundus guerriero vi è nella medesima area culturale quello muliebre rappresentato dagli specchi di varia tipologia e dimensione, oggetti di sicuro pregio, segno di livelli sociali elevati, che hanno una evidente caratterizzazione femminile; l’assenza di iscrizioni di dedica non ci fa però sapere a quale dea fossero offerti.
Altri ritrovamenti esposti nella mostra sono stati ritrovati in altri contesti archeologici calabresi. Tra questi, alcuni manufatti di grande pregio, offerti sempre agli dei e ai defunti da uomini e donne dell’antichità, in cui sono rappresentati simboli di identificazione sociale, dunque di appartenenza a uno status, ma anche tipici di riti iniziatici o di passaggio. Tutti questi oggetti concorrevano nel costituire ta hiera chremeta, le “ sacre sostanze”, alla cui custodia erano addetti appositi tesorieri (tamiai).
La maggior parte delle armi venivano tutte appositamente rese inutilizzabili per essere consacrate alla divinità; divenendo res sacra non potevano essere oggetto di trafugamenti ed era escluso qualsiasi tentativo di recupero e indebito riuso; anche il vasellame e le terrecotte venivano fatti a pezzi prima di venire sotterrati nelle viscere della terra.
Purtroppo, per molti di questi oggetti, ancora non conosciamo l’utilizzo all’interno dello spazio sacro, né la loro collocazione originaria, né il loro significato. Non sempre sappiamo quali fossero i manufatti a scopo votivo e quali quelli di arredo; non sappiamo distinguere quali fossero quelli adoperati per scopo rituale, per l’espletamento di abluzioni, sacrifici, libagioni e altre pratiche, perché mancano fonti epigrafiche che ci attestino la loro funzione. Le modalità di seppellimento e la loro densità però sono indizio di una disposizione selezionata per tipologia di scelta, anche se non sempre strategica e sistematica; si crede che le ragioni di questi depositi siano connesse con la necessità di liberare parte dello spazio sacro divenuto ingombro per via di tutti gli anathemata (offerte di ringraziamento) accumulati. Dunque, la “spazzatura” inumata dai sacerdoti e dagli addetti al culto ha finito per costituire per noi un prezioso archivio documentario.
Purtroppo, tuttavia, gli stessi fenomeni di refusione, i saccheggi occorsi già in antico, le diaspore, il lungo tempo intercorso con l’oblio che ne consegue, la continua urbanizzazione nel secolo scorso hanno fatto in modo che di tantissimo materiale si perdessero per sempre le tracce, fenomeno che ha compromesso irrimediabilmente la ricostruzione organica della fisionomia di questi luoghi di culto.
Nell’antica Medma, nella zona Nord-Est del pianoro di Pian delle Vigne è stata individuata un’area sacra in località Calderazzo, grazie all’importante scoperta del “grande deposito di terrecotte ieratiche” fatta nel 1912-13 dall’archeologo trentino Paolo Orsi. Quest’ultimo sull’estremità Ovest aveva scavato la grande favissa, una fossa colma di materiale votivo eterogeneo databile tra il VI e la prima metà del V a.C. Oggi non si conosce ancora l’esatta estensione di quel santuario, attivo dalla fine dell’VII al III a.C; nella punta Nord è stata individuata anche una vasta area caratterizzata da cinque zone sacrificali principali.
Le esplorazioni recenti allineate alla favissa scavata da Orsi, hanno restituito materiali straordinari per qualità artistica e per significato simbolico, e rivelato consistenti tracce di attività metallurgica come scorie, gocce e colature, oggetti frammentati destinati alla refusione. Questi testimoniano l’esistenza di impianti artigianali, che fabbricavano in loco oggetti in bronzo e ferro per usi interni al santuario, prima fra tutti la produzione di ex voto.
A questo spazio per sacrifici è infatti collegata un’estesa zona di deposizioni di materiali votivi (ceramica, coroplastica, metalli) con resti di sacrifici cruenti e/o pasti rituali collocati all’interno di una serie di fosse. I numerosi e significativi materiali dei depositi rimandano ad un’epoca tra la metà del VI e la metà del V secolo. Ancora non si è identificata la divinità titolare del santuario: prevalgono statuette che riproducono una divinità femminile, stante o in trono, associata a divinità maschili, spesso chiaramente identificabili con Hermes ed Heracles, ma non mancano le figure di Athena.
Provenienti dalle necropoli medmee sono stati esposti in mostra alcuni oggetti di eccezionale pregio: lo specchio di contrada Grizzoso, simbolo di bellezza e seduzione femminile, e lo strigile bronzeo, con decorazioni incise, oggetto della collezione Gangemi di Rosarno che allude alle attività atletiche, fondamentali per la formazione dell’uomo greco.
Tre figure in bronzo datate al primo quarto del V sec. a.C hanno destato la mia attenzione per la loro particolare bellezza compositiva. La prima è quella di un gallinaceo con il piumaggio decorato con incisioni semilunate, di peso notevole, forse era applicato ad un altro oggetto di cui probabilmente costituiva la decorazione, la seconda rappresenta un torello ben caratterizzato negli attributi. Il corpo è tozzo, inarcato nella parte finale con le natiche disegnata plasticamente, fra le quali scende la lunga coda, descritta con incisioni sinuose, e in ultimo un Sileno recumbente, decorazione di un grande recipiente, appoggiato al gomito sinistro guarda diritto davanti a sé. Nella mano destra regge il corno potorio (corno usato per bere), dietro il quale si scorge il membro eretto.
Va ricordato che molti reperti, frutto di scavi recenti, che hanno impreziosito l’esposizione, sono stati presentati in questa occasione per la prima volta al pubblico. Tra questi un reperto bronzeo di eccezionale importanza, rinvenuto nei recenti scavi del santuario dell’antica Kaulonia, presso Punta Stilo: si tratta della cosiddetta Tabula Cauloniensis, secondo la definizione data dal suo interprete, Carmine Ampolo. Si tratta di una lamina iscritta in lingua achea che celebra le offerte al santuario di un personaggio di alto lignaggio, illustrandone anche il ruolo sociale: il testo più lungo in lingua achea del V sec. a. C. mai rinvenuto in Magna Grecia. La lamina comprende infatti 18 linee, di cui 15 recano versi anche in metrica (Kata stichon) di modesta qualità poetica; queste linee e la combinazione delle lettere disposte secondo il criterio chiamato stoichedon hanno facilitato la ricostruzione del testo. Un restauro assai difficile, per la frammentazione e il degrado del metallo, ma l’uso di strumenti e tecniche molto avanzate per la decifrazione delle parti più danneggiate hanno infine permesso il recupero di un documento che segna una nuova pagina si storia della Magna Grecia.
La mostra si concludeva idealmente in modo magnifico, con un reperto che documenta la cultura delle popolazioni italiche, i Lucani accanto ai Brettii, che tra IV e III sec. a.C. dominarono su ampie parti della Calabria: la ricca armatura decorata proveniente da una grande tomba a camera di Marcellina, l’antica Laos lucana, datata 330 e 320 a.C; essa ospitava al suo interno una coppia di inumati. La scoperta risale al 1961 e fu sensazionale in quanto dallo scavo emerse un ricchissimo corredo composto da 5 cinturoni, di cui uno su lamina d’argento con 3 figure sovrapposte di Scilla e appunto una bellissima panoplia in bronzo con elmo di tipo frigio, una corazza anatomica bivalve con decorazione a sbalzo e una coppia di schinieri. La tomba ha restituito anche parecchi altri oggetti appartenenti al mondo della cosmesi e all’oikos della donna come uno specchio e una serie di utensili metallici.
Dopo aver ripercorso questa splendida mostra, vorrei ringraziare la direttrice del Museo “V. Capialbi”, la dott.ssa Maria Teresa Iannelli, che mi ha gentilmente permesso di scattare le foto a scopo divulgativo (di cui potete prendere visione nella photogallery qui allegata e di cui è vietata la riproduzione), e per essere stata una preziosa guida lungo le sale del museo. Saluto infine i miei cari lettori ai quali spero di essere riuscita a trasmettere un po’ dell’emozione da me provata in questo fantastico viaggio fra gli antichi splendori della Magna Grecia.
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