Il vulcano Etna protagonista della breve descrizione dedicata all’isola
di Redazione FdS
Nel 1298 il nostro Marco Polo, nel suo celebre Milione, o Livre des merveilles come qualcuno lo avrebbe definito nei codici quattrocenteschi, favoleggiò delle lontane terre di Cipango, traslitterazione del termine Jepenkuo con cui i cinesi chiamavano il Giappone, un Paese della cui esistenza fino ad allora nessun europeo aveva mai avuto notizie. Ebbene, in pochi sanno che 73 anni prima uno scrittore cinese, Ispettore del Commercio Estero nella provincia del Fukièn, vissuto durante gli ultimi anni della dinastia Song, aveva fatto qualcosa di simile con la nostra Sicilia, confermando a sua volta come la distanza geografica e culturale alimentino facilmente storie ed immagini favolose. Stiamo parlando di Chau Ju-Kua che nel 1125 scrisse un libro in due volumi intitolato Chu-fan-chï (諸蕃志), che letteralmente significa “Descrizione dei Popoli Barbari” o “Informazioni sui Popoli Stranieri”: un testo che in parte attinge da un’opera più antica, del 1178, del geografo cinese Chou Ch’u-fei, e in parte dai racconti dei mercanti arabi che all’epoca delle dinastie Tang (618-907) e Song (960-1279) avevano stabilito con la Cina rapporti culturali ed economici, poi accentuati da vere e proprie migrazioni che favorirono l’introduzione nel Paese della scienza, della tecnica e della civiltà arabe.
Nel primo volume l’autore descrive una serie di terre lontane, narrando sia di luoghi e costumi delle popolazioni locali, sia dei beni che vi si commerciavano, mentre nel secondo espone una lista di beni oggetto di traffici commerciali: l’opera, – tradotta per la prima volta dal cinese nel 1911 dal sinologo tedesco Friedrich Hirth e dal diplomatico statunitense William Woodville Rockhill – descrive celebri monumenti dell’antichità oggi scomparsi come il Faro di Alessandria, o terre come l’isola del Madagascar, con il suo gigantesco e mitico uccello Roc (presente anche nel Milione e nelle Mille e una notte), o come le isole Andamane popolate da feroci cannibali. Inaspettatamente, se non altro per la distanza, vi troviamo anche l’Italia, ravvisata dai traduttori nella Terra di Lu-mei (ossia la “Terra di Roma”) se non altro perché l’autore colloca nei suoi pressi la Sicilia, e sostiene che i costumi di Lu-mei sono simili a quelli dell’isola.
Prima però di parlare della Sicilia, sorprendentemente inserita tra le “isole leggendarie” con il dolce nome cinese di Ssi-kia-li-ye, ci piace ricordare come Hirth e Rockhill considerassero Chau Ju-Kua degno di essere annoverato tra i più importanti scrittori di etnografia e storia del commercio del suo tempo. Per far luce sul commercio medievale con l’Estremo Oriente, a quel tempo nelle mani di mercanti arabi o persiani – affermano i due studiosi -, i suoi appunti competono con successo con quelli di Marco Polo e dei primi viaggiatori arabi e cristiani. Da qui la scelta dei due traduttori di aggiungere alla loro edizione delle annotazioni, anche attingendo ad altre fonti, nella speranza di mettere i lettori “in condizione di comprendere appieno il valore di questa fonte cinese su un interessante argomento storico”, al di là delle componenti ”leggendarie” che conferiscono fascino al racconto. E di misterioso fascino è avvolto il breve cenno che Chau Ju-Kua dedica alla Sicilia, isola evocata attraverso l’immagine del vulcano Etna in eruzione e il racconto di uno strano “rito” della popolazione locale.
Ssi-kia-li-ye ( 斯加 里野 )
Il paese di Ssi-kia-li-ye è vicino al confine con la terra di Lu-mei (Roma). È un’isola in mezzo al mare, larga mille li [il li è un’antica unità di misura cinese – NdT]. L’abbigliamento, i costumi e la lingua delle persone sono gli stessi di Lu-mei. Questa terra ha una montagna con una caverna di grande profondità. Quando la si guarda da lontano si nota fumo al mattino e fuoco la sera; se la si osserva da vicino si scorge un fuoco follemente scoppiettante. Quando la gente del paese porta con un palo una grossa pietra del peso di cinquecento o mille Jin [unità di misura cinese con pesi equivalenti rispettivamente a circa 250 e 500 kg – NdT] e la butta giù nella caverna, poco dopo si verifica un’esplosione e la pietra fuoriesce in tanti piccoli pezzi come di pietra pomice. Una volta ogni cinque anni fuoco e pietre esplodono scendendo fin giù sulla costa per poi arretrare nuovamente. Gli alberi nei boschi attraverso i quali scorre questa colata non vengono bruciati, ma le pietre che essa incontra lungo il suo corso si riducono in cenere”.
Nella loro annotazione, Hirth e Rockhill, riportando un’etimologia successiva a quella classica che fa derivare il nome dell’Etna dal toponimo greco Αἴτνη (Aítnē) e questo dal verbo αἴθω (aíthō) cioè “bruciare”, ricordano come gli Arabi chiamassero i vulcani atmah, parola forse modellata proprio sul termine greco, dando vita a un suo uso in senso traslato, per cui l’Etna diventa Jabal Aṭmah Ṣiqilliya, ”montagna vetta di Sicilia” e atmah è per antonomasia ogni vulcano. L’altro nome arabo dell’Etna era Jabal al-burkān “montagna del vulcano”. Il geografo e viaggiatore arabo Al-Idrīsī, contemporaneo di Chau Ju-Kua, chiamava l’Etna “la montagna di fuoco (Jebel-el-nar) vicina a Lebadj” (l’odierna Acireale). Hirth e Rockhill ritengono che siano stati proprio i mercanti arabi a parlare della Sicilia a Chau Ju-Kua, che di fatto è stato il primo scrittore cinese a menzionare la Sicilia. Del resto, a sottolineare quanto gli Arabi conoscessero bene l’isola, i due traduttori concludono la loro nota ricordando che “gli Arabi d’Africa completarono la conquista della Sicilia nell’ultima parte del IX secolo e, sebbene l’isola fosse stata loro tolta dai Normanni nell’ultima parte del secolo XI, i musulmani continuarono a formare una parte ampia e influente della popolazione”.
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Bibliografia:
Chau Ju-Kua, Chu Fan Chi, tradotto in inglese e annotato da F. Hirth e W.W. Rockhill nel volume Chau Ju-Kua, His work on the Chinese and Arab Trade in the twelfth and thirteenth Centuries, Printing Office of the Imperial Academy of Sciences, St. Petersburg, 1911