di Redazione FdS
Poco più di un anno fa era arrivato il suo omaggio all’Italia che resisteva alla pandemia, un’Italia ritratta nel corso del tempo con occhio sensibile e innamorato e chiosata in uno splendido video-tributo con pensieri di grandi scrittori-viaggiatori tra cui, emblematico, quello del poeta e saggista americano Samuel Johnson: “Chi non è mai stato in Italia sarà sempre consapevole della propria inferiorità”; riconoscimento di una eccellenza storico-estetica che il nostro Paese si porta dietro da secoli ma che negli ultimi anni vacilla pericolosamente sotto il peso di continui tentativi (non di rado riusciti) di struprarne il territorio e di sconsiderate politiche culturali che sembrano percepire il nostro incommensurabile patrimonio culturale come una sorta di fastidiosa palla al piede o, nel migliore dei casi, come un mero strumento per business di basso profilo. Ora il grande fotografo americano Steve McCurry – a cui Bari sta rendendo omaggio dal 25 giugno scorso con una grande mostra – è tornato in Italia (da qualche giorno è a Reggio Calabria) non per ritrarne da par suo le tante bellezze, ma per testimoniare un crimine, quello consumato nei giorni scorsi a carico del Parco Nazionale d’Aspromonte, una delle aree più colpite tra le tante che questa estate hanno dovuto lottare contro gli incendi.
Quattomila ettari di bosco andati in fumo e 5 vittime sono il tristissimo bilancio di una stagione che speriamo di non essere più costretti a rivivere in futuro, sebbene il rischio rimanga quanto mai realistico qualora non si decidesse di porre mano all’infelice riforma che pochi anni fa ha smantellato il Corpo Forestale dello Stato disperdendone le relative competenze senza rimpiazzarle con un nuovo e adeguato sistema di monitoraggio e intervento. Inviato dal prestigioso National Geographic Magazine, McCurry è arrivato dunque in Aspromonte con la sua Leica come è solito andare in un teatro di guerra per documentare la forza distruttiva dell’uomo, la stessa che con meticolosità mani criminali hanno messo in atto in Calabria, certe anche di poter contare su un inadeguato, sebbene costosissimo, sistema di intervento. Viceversa avremmo preferito che il suo sguardo di raffinata sensibilità naturalistica e antropologica si fosse posato sulle magiche foreste primordiali che appena pochi giorni fa sono state riconosciute dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. Ma tant’è…non rimane che sperare in un amore a prima vista su cui costruire nuove occasioni di racconto di una terra bella e negletta.
Autore del celebre ritratto della “Ragazza afghana” dagli ipnotici occhi verdi che nel 1984 gli ha assicurato una fama planetaria, Steve McCurry è uno dei più quotati fotografi del mondo. La sua carriera ebbe in realtà il suo lancio già a fine anni ’70 quando, travestito con abiti tradizionali, ha attraversato il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan controllato dai ribelli poco prima dell’invasione russa; un’impresa temeraria da cui ritornò con rotoli di pellicola cuciti tra i vestiti e contenenti le prime immagini sul conflitto poi pubblicate in tutto il mondo. Fu un reportage che gli valse la Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, premio assegnato a fotografi distintisi per imprese portate a termine con eccezionale coraggio. Membro dal 1986 dell’agenzia Magnum, ha fotografato tutti i grandi conflitti internazionali, tra cui le guerre in Iran-Iraq, Libano, Cambogia, Filippine, Afghanistan e Guerra del Golfo, pubblicando le sue immagini su riviste di tutto il mondo ma mantenendo un rapporto privilegiato con il National Geographic Magazine. La Robert Capa Gold Medal è stata solo la prima di una lunga serie di premi che include il Magazine Photographer of the Year, assegnato dalla National Press Photographers’ Association, il World Press Photo Contest vinto per quattro anni di seguito e due Olivier Rebbot Memorial Award.
Già impegnato in vari generi come la fotografia di guerra, la street photography e la fotografia urbana, McCurry ha allargato il suo orizzonte anche all’ambiente naturale, ritratto sia nella sua sontuosa bellezza sia nelle condizioni di devastazione riscontrabili in aree di conflitto. Gli esseri umani rimangono tuttavia il soggetto privilegiato dei suoi scatti: “La parte più importante del mio lavoro – afferma – è narrare storie, è per questo che la maggior parte delle mie immagini posa le sue radici nella gente comune. Sono alla ricerca di quell’attimo di autenticità e spontaneità capace di raccontare una persona, quello in cui, per un istante, si cattura l’essenza di un altro individuo. Penso sia questo, uno dei più grandi poteri della fotografia.”
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