di Redazione FdS
STORIA DI UNA TRADIZIONE MILLENARIA PERDUTA…MA FORSE NON PER SEMPRE
Un po’ di tempo fa ci siamo addentrati nel magico mondo della ‘seta del mare’ – il bisso – attraverso la affascinante figura di Chiara Vigo. Lei vive ed esercita la sua straordinaria arte sull’isoletta sarda di Sant’Antioco ed è l’ultimo Maestro del bisso in Europa (e forse nel mondo) capace – in virtù di una ancestrale conoscenza – di ricavare dalla grezza fibra secreta dal mollusco Pinna Nobilis uno dei filati più preziosi che siano comparsi sulla faccia della Terra, attributo di Re, Imperatori e Sacerdoti, come comprovato da una storia millenaria (nella foto sopra, un ciuffo di bisso grezzo – Ph. John Hill | CCBY-SA3.0). La Sardegna rimane dunque oggi l’ultimo ristrettissimo polo di una lavorazione che vanta antichissime memorie storiche e letterarie intrecciandosi alle suggestive e a tratti turbolente vicende del Mediterraneo. Forse però in pochi sanno che la città pugliese di Taranto nel suo remoto passato e anche in quello più recente, è stata uno fra i pochissimi centri di produzione e lavorazione del bisso. Cerchiamo quindi di ricostruire il percorso storico di una realtà che, a differenza di quanto accaduto in Sardegna, ha finito con lo scomparire dalla pratica e anche dalla memoria collettiva fatta eccezione per pochi sporadici studiosi o appassionati della materia.
LE ORIGINI MILLENARIE DEL BISSO
Prima di parlare di Taranto è giusto sottolineare come sia pressoché impossibile datare e localizzare con precisione l’origine della produzione del bisso. Si può dire per certo che essa si accompagna ai primi passi delle più antiche civiltà che, tra le sponde del Mediterraneo e il Medio Oriente hanno intessuto scambi di cui spesso è difficilissimo districare le reciproche traiettorie. Per certo sappiamo che, prima ancora che nelle fonti greco-romane, già nell’Antico Testamento si parla del bisso e della porpora come tecniche avanzate, sofisticate e molto ricercate. In un passo ad es. del 2° libro delle Cronache, Salomone chiede, per la costruzione del tempio, che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto, mentre in un altro passo dello stesso libro si dice che nel tempio tutti i cantori leviti erano vestiti di bisso. Nell’insieme troviamo ben 46 brani del testo biblico in cui si parla del bisso. Tramite ebrei e fenici, la tecnica della lavorazione del bisso ha finito così per arrivare fino ai greci, compresi quelli delle colonie del Sud Italia come Taranto.
Ma nelle fonti antiche si legge anche che: i dazii furono pagati ad alcuni Re di Egitto in tele di bisso; che di bisso erano le cortine del tabernacolo nel tempio di Gerusalemme; che famiglie distinte erano impiegate al lavoro del bisso nel vestibolo dello stesso tempio; che con velo di bisso si mostrò Cleopatra alla battaglia d’Azio; che di bisso, nei loro riti solenni, vestivano i sacerdoti di Egitto; inoltre il bisso era annoverato tra le più ricche derrate che dalla Siria erano trasportate a Tiro; era impiegato nelle regie vesti più solenni; i leviti cantori erano vestiti di bisso nel tempio di Gerusalemme; il re Davide accompagnò l’Arca con la stola di bisso; gli eserciti celesti sono vestiti di bisso nell’Apocalisse; di bisso vestiva la nobiltà indiana; in fasce di bisso fu avvolto il cadavere di Anchise; fasciate di bisso furono le ferite di Pezio eroe persiano; e per finirla, con veste di bisso la vedova di Alessi seniore andò incontro all’imperatore Manuele, nella sua entrata solenne in Costantinopoli. Non deve pertanto sorprendere se la tela di bisso era tenuta in tanta considerazione dagli antichi dall’essere venduta a peso d’oro, come ci riferisce Plinio.
IL BISSO A TARANTO NELLA STORIA
Emanuele Greco, già archeologo dell’Università di Napoli ‘L’Orientale’ e direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, in un suo contributo al bel libro “La seta del mare – Il bisso” (Scorpione editrice) curato dalla tarantina Evangelina Campo, suggerisce che per immaginare il contesto antico in cui si è sviluppato l’artigianato tessile a Taranto (celebre fu ad esempio quello della lana) non si può non pensare a una città profondamente legata al mare e alle descrizioni d’ambiente che ne dà il poeta tarantino Leonida. Perché proprio Leonida, autore di poemetti e di epigrammi, nonché poeta di corte presso i Macedoni? Perché il suo mondo, quello della prima età ellenistica, non è quello degli uomini di potere, dei condottieri e degli eroi, ma quello della povera gente, dei pescatori, delle filatrici, dei falegnami, insomma il mondo degli artigiani. Quello stesso mondo che, nonostante gli inevitabili e a volte radicali mutamenti, poteva tornare alla mente passeggiando per la discesa del Vasto e la Marina, quando ancora si vedevano i pescatori tirare a secco le barche e tornare a casa coi remi in spalla o intenti sul molo a riparare le reti (nella foto, uno scorcio del mare di Taranto – Ph. Marco Ferrini | Public domain). Seguendo queste suggestioni è possibile collocare nello stesso contesto la pesca della Pinna Nobilis e la mirabile arte racchiusa nelle mani di quell’umanità alla quale rivolgeva i suoi versi l’antico poeta, cantore della dignità dei poveri, della gente umile: “O uomo, ricercando in te per quanto tu possa, giorno dopo giorno, rinvieni il tuo sostegno in una vita semplice” (Leonida VII, 472, vv.13 ss.) .
Taranto lega al mare e alle sue ricchezze la propria storia millenaria e non a caso la fama dei mitili tarantini era nota sin dall’epoca greco-romana. Fra questi, due in particolare, la Pinna nobilis ed il Murice sono più volte citati in testi classici come fonti per la produzione di tessuti pregiati e di una tintura preziosa, la porpora, derivata dalla tradizione fenicia. Con particolare riferimento al bisso marino si trovano notizie di tessuti realizzati molto probabilmente con questa fibra in Crisippo Solense, Quinto Settimio Florenzio Tertulliano e Panfilo Alessandrino. Aristotele, vissuto fra il 384 a.C. ed il 322 a.C., conosceva bene la “Pinna nobilis” al punto che nel suo trattato sulla Storia degli animali descrive con precisione il mollusco bivalve e il suo ciclo vitale. In varie altre fonti si narra che personaggi illustri di epoca romana solevano indossare toghe dall’aspetto aureo poiché, all’impatto con la luce solare o con riflessi di luci artificiali, la bruna e bronzea tonalità del tessuto si illuminava di riflessi dorati, caratteristica che è tipica del bisso. Per tornare a Taranto, apprendiamo dalle fonti come nell’Italia meridionale, la città fosse stata il centro di una fiorente lavorazione, al punto che in epoca classica era famosa per le tarantinidie, vesti femminili diafane giudicate lascive e voluttuarie, una delle massime espressioni dello sfrenato lusso tarantino.
LA PESCA DELLA PINNA NOBILIS NELL’ANTICHITA’
Nell’antichità l’intensiva pesca dei grandi bivalvi avveniva con un attrezzo citato nella Historia Naturalis di Plinio con il nome di pernilegum. Era un attrezzo di invenzione tarantina formato da due branche di ferro curve ad arco che servivano a cingere come in una morsa la conchiglia ed erano congiunte alla loro estremità ad una pertica di lunghezza variabile a seconda della profondità del fondale. Il pescatore non doveva far altro che afferrare la conchiglia con il pernilego ed imprimere allo strumento una rotazione di 90° per estrarre la pinna dal fondale. In altri luoghi veniva invece usato un altro tipo di pesca con una cordicella a nodo scorsoio manovrata da due persone, una che si tuffava in acqua e adattava il nodo alla Pinna e l’altra che dalla barca tirava la funicella insieme alla preda. Il bioccolo di filamenti a quel tempo si prendeva tutto intero, aprendo la conchiglia e tagliandolo direttamente dal suo piede, in questo modo si utilizzavano i filamenti in tutta la loro lunghezza che arrivava a 25 cm, ma si uccideva il mollusco.
LA LAVORAZIONE DELLA MATERIA GREZZA
I fibrosi bioccoli raccolti, del peso di gr.1,5 l’uno, subivano una serie di lavaggi in acqua dolce, per 12 giorni, in modo da essere dissalati e resi elastici e poi si facevano asciugare all’ombra in un luogo sufficientemente ventilato. Un secondo trattamento consisteva in un bagno in urea di vacca che schiariva le fibre e ne esaltava la lucentezza (a quel tempo nelle terre del Mediterraneo non si conoscevano ancora gli agrumi successivamente introdotti dall’Asia e così, solo in secoli più recenti, si scoprì che lo stesso risultato di lucentezza si poteva ottenere con un bagno di 36 ore in succo di limone puro). Successivamente si passava ad un lavaggio con saponatura in erba saponaria e si proseguiva con la asciugatura all’ombra. La cardatura dei bioccoli, che ancora in questa fase presentavano nei grovigli impurità ed incrostazioni, avveniva in due fasi successive con due diversi strumenti. In una prima si usava una tavola chiodata e nella seconda un cardo a spillo.
Una volta ottenuta la bambagia cardata, il bioccolo a questo punto aveva perso i 5/6 del suo peso per cui si procedeva alla filatura. Per poter filare fibre così sottili e delicate occorrevano polpastrelli molto sensibili e delicati, perciò per questa fase della lavorazione venivano adoperate ragazze abbastanza giovani da avere ancora le mani adatte, cioè con il pollice e l’indice di estrema sensibilità tattile. Si usavano dei fusi a piombo di circa 30 cm., come quello Tarantino e Cipriota. Si poteva ottenere una filatura a filo liscio, adatto per i ricami, o a filo ritorto, cioè doppio, più resistente e quindi adatto per l’orditura che poteva essere a muro – come si usava in Grecia e in Persia- oppure a terra – come in Mesopotamia.
L’IMPORTANZA DELLA COLORAZIONE DEI FILATI
Nell’antichità la lavorazione del bisso e il suo uso nella tessitura e nei ricami si accompagnava (e ancor oggi si accompagna, grazie a Chiara Vigo in Sardegna) alla colorazione dei filati che in base alla tecnica sviluppata dai Fenici avveniva con il color porpora (dibromurato di indaco) ricavato dalle ghiandole porporigene dei murici, molluschi con conchiglia a spirale con pareti dure, scanalate e acuminate. I murici presentavano spiccate qualità tintorie nei mesi da Marzo a Giugno (periodo di fecondazione in cui si radunano in grandi moltitudini). Quindi una fibra marina si colorava con un altro elemento marino. Nella stagione propizia, la primavera, venivano catturati con piccole nasse.
Nelle città costiere del nord Africa, dell’Asia Minore e dell’Europa, dove erano situate le industrie della porpora – e Taranto era fra queste – non era difficile trovare frantumi di conchiglie in cumuli enormi. I lavoranti addetti rompevano con un colpo secco le conchiglie in modo da non danneggiare gli animali, asportavano le ghiandole, che erano poste vicino all’intestino e che emettevano un odore nauseante. Procedevano poi alla loro macerazione in un recipiente di argilla con l’aggiunta di sale marino per tre giorni. Per ogni kg di sostanza macerata si aggiungevano poi 500 gr. di acqua e si cuoceva a fuoco lento in una caldaia di piombo dentro una fossa rivestita di mattoni in cui, attraverso un tubo orizzontale si faceva arrivare calore da una fornace. Si asportavano quindi con dei mestoli forati i frammenti di ghiandole e, ottenuta la gradazione di colore desiderata si teneva la soluzione calda per 10 giorni. Dopo si potevano immergere i filati e la gamma dei colori poteva andare dal turchino al rosa fino al rosso forte e al viola.
L’INIZIO DEL DECLINO DI UNA TRADIZIONE
A Taranto, come nel resto d’Italia e del Mediterraneo, il declino della fiorente produzione incominciò già dal tempo dell’imperatore Giustiniano ( 500 d.c.) da quando cioè furono portate a Costantinopoli, dalle frontiere della Cina, da monaci Persiani, delle pianticelle di gelso e numerose uova di baco da seta. In breve tempo la seta si sviluppò nell’isola di Scìo e si diffuse poco dopo in Sicilia e da lì in tutta la penisola. La raccolta dei bioccoli di fibra di Pinna Nobilis non poteva certo competere con la continua e illimitata produzione dei bachi in allevamento e così il bisso, già condizionato da una laboriosa tecnica, vide persi definitivamente molti mercati di sbocco. Andò così sempre più a trasformarsi in specializzazione che poche famiglie si tramandavano per una manifattura artistica di pregio, fatta di pezzi unici riservati per lo più ad omaggiare personaggi ed eventi importanti. Nell’Italia meridionale, Taranto che in epoca classica era stata il centro di una fiorente lavorazione, nei secoli più vicini a noi vide dunque abbandonata la tessitura e il prezioso filato fu usato solo per ricamare.
Nel periodo compreso fra il florido sviluppo iniziale e il definitivo tramonto della lavorazione del bisso, troviamo a Taranto una figura di rilievo per la storia del bisso tarantino. Si tratta di Monsignor Giuseppe Capecelatro, arcivescovo della città jonica dal 1778 al 1836, il quale studiò la Pinna Nobilis con attenzione riportando i risultati nel breve trattato dal titolo “Spiegazione delle conchiglie che si trovano nel piccolo mare di Taranto” (1779) . Capecelatro, non solo ebbe il merito di descrivere con grande accuratezza tutti i passaggi della lavorazione del bisso, sottolineando l’abilità e la professionalità oltre all’ingegno ed alla pazienza delle filatrici tarantine, ma si impegnò a far conoscere la bellezza dei lavori in bisso inviando in dono a molti personaggi illustri europei, dei capi di abbigliamento, con l’intento di promuovere la richiesta dei personaggi facoltosi e di far in tal modo prosperare le manifatture tarantine specializzate in produzioni di lusso. A tal scopo, l’arcivescovo, venuto a conoscenza nel 1780 del fatto che il musicista tarantino Giovanni Paisiello, fosse diretto alla corte di San Pietroburgo, approfittò dell’occasione per inviare un dono alla sovrana Caterina di Russia. Essendo nota all’epoca per i suoi interessi scientifici, a lei donò anche una raccolta di 22 conchiglie accompagnate da una breve spiegazione che illustrava ampiamente i vari molluschi, il loro nome in greco, in latino e nel dialetto locale facendo ampi riferimenti ai testi letterari che ne avevano parlato in precedenza.
COSA SOPRAVVIVE DELLA PRODUZIONE TARANTINA
Ciò che rimane oggi ad attestare la raffinata manifattura del bisso di Taranto è costituito da un centinaio di pezzi: alcuni custoditi in prestigiosi musei del mondo, mentre altri, la maggior parte, si trovano in Italia, ma in questo caso spesso mal custoditi e non fruibili dal pubblico. Possiamo ricordarne alcuni: al Museum für Naturkunde di Berlino si possono ammirare un paio di guanti prodotti dai ciuffi di Pinna Nobilis quale dono fatto dal vescovo di Taranto nel 1822 al re Federico Guglielmo II che visitò Napoli nello stesso anno. Al Field Museum of Natural History di Chicago è esposto un manicotto acquistato da Taranto nel 1893 per l’esposizione mondiale di Chicago. Si tratta di una lavorazione cosiddetta “a pelliccia” con i ciuffi di fibra cuciti interi, strato su strato, su di un tessuto di base, il cui risultato è una pelliccia che brilla dei dorati fili di bisso. Altri reperti molto più antichi si possono trovare in antiche chiese Europee o in esposizioni museali incamerati a seguito di fortuiti ritrovamenti in scavi archeologici.
Sono di provenienza non precisamente determinata ma sicuramente da centri Mediterranei (tra i più probabili Puglia, Sardegna e Sicilia). Alcuni di questi esempi sono : 1) il cappuccio di puro bisso lavorato a maglia, datato XIV secolo, ritrovato a Saint-Denis vicino a Parigi e custodito al Musée d’art et d’Histoire di Saint-Denis; 2) Il sacrale – detto di Saint-Yves- (l’indumento quadrato che il sacerdote usa sopra la tonaca) del XII secolo custodito nella Basilica di Saint-Yves a Louannec in Bretagna. Questo sacrale, cui i Francesi hanno attribuito una provenienza Siciliana da atelier ispanico-moresco, ha il motivo dei grifoni affrontanti con al centro la pianta della vita (motivi presenti nella antica tradizione sarda di S. Antioco) che invece potrebbe far supporre ad una provenienza appunto dalla piccola isola sarda, anche considerando che i monaci Vittorini di Marsiglia ottennero la concessione del Santuario di S.Antioco dal Giudice Costantino di Cagliari per operare dei restauri proprio nello stesso secolo XII. I monaci di San Vittore di Marsiglia erano a quei tempi richiestissimi restauratori di chiese antiche e potrebbero essere stati loro il tramite con la basilica di Saint-Yves.
E’ IPOTIZZABILE UN RITORNO DEL BISSO A TARANTO?
Michele Pastore, dell’istituto Sperimentale Talassografico di Taranto facente capo al CNR, qualche anno fa, nel fornire anch’egli un contributo al già citato libro “La seta del mare – Il bisso” (Scorpione editrice) , ricordava come il professor Attilio Cerruti avesse effettuato negli anni ‘30, con fondi del CNR, una ricerca sull’accrescimento di Pinna nobilis L., da cui il bisso si ricava, a partire dagli stadi giovanili dell’animale raccolti nella zona di San Vito, ed inseriti in cassette di legno da collocare nell’ambito dell’allora esistente “zona sperimentale” nel Mar Piccolo. Gli esperimenti di A. Cerruti sull’allevamento di Pinna Nobilis L. iniziarono nell’ottobre 1937 e proseguirono fino al settembre 1939. I risultati furono resi noti tramite due pubblicazioni: 1) A. Cerruti, 1937 – “Primi esperimenti di allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in ‘La Ric. Scient., II, I: 7-8; e 2) A. Cerruti, 1939 – “Ulteriori notizie sull’allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in La Ric. Scient., XVIII: 1110-1121.
Gli esperimenti consistevano nella raccolta di piccolissimi esemplari di mollusco collocati a dimora in cassette di legno con sabbia mista a ghiaietta o residui di altre conchiglie allo scopo di seguirne lo sviluppo. Tale tipo di substrato utilizzato dal Cerruti era stato da lui osservato in ambiente marino nei luoghi ove crescevano naturalmente le pinne. Cerruti notò anche che il miglior bisso veniva prodotto dalle pinne inserite in tale tipo di sedimento misto mentre un bisso più corto e più fragile veniva prodotto dalle pinne inserite in un sedimento di sola sabbia fine. Le stesse cassette furono poi sospese a poca profondità (5-6 m) nell’ambito della zona sperimentale del Mar Piccolo. In ogni cassetta furono collocati in media 50 soggetti molto piccoli e, dato l’accrescimento piuttosto rapido (in media 0,63 mm/giorno), veniva effettuato dopo qualche mese un loro trapianto in cassette di maggiori dimensioni e con un minor affollamento. Cerruti osservò il tasso di accrescimento annuale di una pinna, così come osservazioni di un certo rilievo fece sulla capacità rigenerativa del bisso da parte delle pinne alle quali il prezioso elemento fosse stato asportato con cura. Così vide che era possibile asportare il bisso da uno stesso soggetto anche tre volte in un anno.
A complemento delle ricerche sperimentali, ipotizzando una possibile pinnicoltura finalizzata a ricavare il bisso, per agire direttamente sui fondali marini idonei allo scopo, Cerruti si era anche fatto preparare sulla scorta di un proprio progetto, uno strumento utile alla pesca delle pinne, dalla barca, senza danneggiarle, e soprattutto funzionale al loro reimpianto, una volta che ne fosse stato asportato il bisso: ottenne tale strumento apportando opportune modifiche al ‘përnuènghëlë’, l’antico attrezzo usato dai pescatori tarantini. Gli esperimenti di Cerruti non vennero purtroppo ripresi nel dopoguerra. Se ne ignoriamo le cause. Tuttavia da quanto riferisce egli stesso, oggettive difficoltà vi erano state negli esperimenti condotti, vuoi per l’elevato costo delle cassette, necessarie in gran numero stante l’usura del legno, vuoi per le perdite di cassette dovute talora alle condizioni del mare oppure a sottrazione – forse sabotative – da parte di ignoti. E’ probabile anche che difficoltà derivassero alla ricerca dalle ancora non approfondite conoscenze del ciclo biologico dell’animale.
Certo è che attualmente la presenza di tale mollusco nei nostri mari si limita a pochi esemplari, in zone in cui un tempo era pur consistente. A determinare tale impoverimento hanno forse contribuito condizioni ambientali oggi compromesse rispetto a quelle del passato, ma anche la distruzione dei fondali causata dall’uso indiscriminato della pesca a strascico. Tuttavia oggi – secondo il prof. Pastore – disponendo di un adeguato numero di riproduttori, di più moderne attrezzature e mezzi di controllo, la ricerca di Cerruti potrebbe essere ripresa e più concretamente portata a compimento. E ciò indipendentemente dall’obiettivo che si vuole raggiungere: il bisso per la tessitura di prodotti di gran pregio ovvero per la creazione di nuovi biomateriali dalle molteplici applicazioni. Insomma non sarebbe da escludere che si possa avviare con le tecniche moderne di acquacoltura una nuova sperimentale attività produttiva di questo mollusco.
Ovviamente occorre chiedersi quale ne sarebbe l’utilità. Forse – sostiene Pastore – la risposta la si può trovare in altri possibili utilizzi ed applicazioni del bisso che non siano quelli tessili di un tempo, poco redditizi rispetto ai costi d’impresa e data la concorrenza di fibre più competitive. Pastore ricorda ad esempio come qualche anno fa sulla rivista Newton sia apparsa la notizia che gli scienziati della National Science Foundation (NSF) avevano testato l’incredibile potere adesivo del bisso di cozza, capace di attaccarsi anche a superfici di teflon, sfidandone la caratteristica antiaderenza. L’articolo della Newton concludeva dicendo che “Le caratteristiche della colla dei mitili la rendono adatta a numerosissime applicazioni: dalle suture chirurgiche alla creazione di nuovi biomateriali più plastici e più resistenti”. Con simili prospettive – conclude Pastore – si potrebbe allora legittimamente pensare a nuovi utilizzi del bisso di Pinna nobilis nell’ambito del differenziato ed innovativo settore dei biomateriali, più che in quello più tradizionalmente tessile.
-IL PUNTO DI VISTA DEL PROF. COSIMO SEBASTIO (TARANTO)
Come spiega il prof. Cosimo Sebastio, noto docente universitario e direttore della Scuola di Maricoltura di Taranto, negli ultimi anni “numerose sono state le iniziative per recuperare l’antica tradizione dei ricami e delle stoffe di bisso marino, tradizione che pare voler sopravvivere ad ogni costo nonostante i vari ostacoli incontrati nel suo percorso storico. Sono state effettuate ricerche scientifiche finalizzate alla pratica dell’allevamento assistito della Pinna nobilis con risultati biologicamente promettenti ma a costi sproporzionati rispetto al ricavo del bisso utilizzabile. Mi è stato chiesto di esprimere un parere scientifico in merito alla possibilità di reintrodurre la cultura del bisso nella città di Taranto e quindi esporrò quanto da me personalmente riscontrato”.
La Pinna nobilis ed i suo bisso – spiega lo studioso – storicamente hanno avuto una sede privilegiata sulle coste pugliesi, oltre che sarde ed in particolare intorno a quelle di Taranto e Gallipoli. Egli chiarisce inoltre come di recente una prova del recupero biologico della Pinna nobilis sia stata ottenuta attraverso la messa a dimora di una scogliera sommersa sperimentale, come presidio ed impedimento della invasiva pesca a strascico sotto costa, a sud delle Isole Cheradi, proprio nella zona di mare dove storicamente venivano raccolti i molluschi bisso per i ricami e le preziose stoffe degli antichi greci e romani (nell’immagine di Google Earth una visione aerea della zona). Proprio alla base dei blocchi che compongono la scogliera sono nate giovani Pinne. Si assiste così a un ritorno del mollusco nella propria sede naturale, grazie alla protezione garantita al sito. Da ciò si deduce – chiarisce Sebastio – “che l’allevamento assistito e, più precisamente l’accrescimento degli esemplari giovanili, trapiantati in luoghi protetti può dare una produzione di bisso naturale, i cui costi e ricavi devono essere calcolati nell’ambito del valore ‘amatoriale’ e degli allevamenti ‘marginali’, connessi cioè ad altre attività principali che sopportano il carico economico per la propria funzione”.
Riferendosi alla possibile creazione di un parco protetto di allevamento delle Pinne, Sebastio racconta come il Comune di Taranto, nella propria isola amministrativa di Torre Zozzoli, nella zona ionica tra Taranto e Gallipoli, abbia deciso di costruire le strutture per una “Isola dei Delfini” con annesso parco marino protetto ed aggiunge che nel medesimo parco protetto, a Levante ed a Ponente di Torre Zozzoli vi sono le condizioni ambientali ed economiche utili a ridurre i costi per una iniziativa collaterale: quella di utilizzare una frazione del parco protetto per trapiantare gli stati giovanili di Pinna nobilis da mettere a dimora per l’accrescimento naturale. Su queste basi, Il bisso prodotto nel parco protetto si potrebbe prelevare periodicamente e parzialmente (tosatura) dagli esemplari lasciati in accrescimento, oppure prelevare integralmente dagli esemplari adulti giunti a fine ciclo vitale. “La metodologia di accrescimento della Pinna, già sperimentata e consolidata – conclude Sebastio – consente di ottenere il bisso marino naturale in quantità sufficiente per recuperare una antica tradizione e per conservare la memoria di questo prezioso dono del mare, che conserva ancora oggi intatto tutto il suo fascino evocativo di antichi splendori mediterranei.”
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DOCUMENTI DISPONIBILI IN RETE:
a) GLI ULTIMI MAESTRI DI BISSO A TARANTO FRA ‘800 E ‘900
1) FILOMENA MARTELLOTTA
2) RITA DEL BENE – IL BISSO DI TARANTO
c) VIDEO: un breve intervento di Chiara Vigo, ultimo Maestro di bisso, durante la sua ultima visita a Taranto, nel maggio 2012.
BIBLIOGRAFIA E ALTRE FONTI:
“La seta del mare – Il bisso”, a cura di Evangelina Campi (Scorpione editrice), Taranto 2008 (240 pp. ill. b/n e colori – 30 eu)
http://www.sardolog.com/
Salve, l’articolo è davvero interessante. Posso sapere chi è l’autore?
L’articolo è il risultato di un lavoro di squadra fatto nel 2014 utilizzando le fonti indicate in fondo alla pagina dell’articolo stesso.