di Kasia Burney Gargiulo
Il Sud viene spesso accusato di vittimismo, di essere incapace di emergere da condizioni socio-economiche fatte di assistenzialismo e di clientelismo. Ma la verità è un’altra, e non ci si tacci di parzialità se osiamo enunciarla noi, che nel Sud ci viviamo e che sul Sud costruiamo quotidianamente una rivista. Anzi diremo di più, forse chi vive al Sud e ne conosce realmente da vicino certe realtà, è legittimati a farlo più di tanti Soloni che pontificano dal chiuso dei loro uffici a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Il Sud Italia è un territorio ad altissime potenzialità di sviluppo, per risorse territoriali e umane, ma per un gioco perverso, che non è affatto casuale, sembra destinato ad una irresolubile condizione di marginalità e di depressione socio-economica.
La ragione? Il Sud è la grande posta dell’ignobile gioco del do ut des, di quel continuo ricatto i cui estremi sono occupazione e consenso politico, in cui il rapporto fra politici e territorio è per lo più basato – come ormai è sempre più di moda anche nel resto d’Italia – sul principio dell’hortus conclusus, ossia di quelle piccole riserve indiane in cui l’opportunità (e spesso anche la licenza di anarchia) si baratta col consenso, secondo regole dettate dal politico di turno. Per carità, non mancano le eccezioni, ma il sistema è questo. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma perchè certa gente non la cacciate a calci nel culo?”. La risposta è che il voto di scambio è una malattia come il cancro, una malattia per la quale occorrono anticorpi speciali, che fuor di metafora si chiamano “alternativa”. Ma questa alternativa spesso manca, perchè i partiti – fatte ancora salve le dovute eccezioni – considerano il Sud esattamente come lo hanno considerato certi industriali, cioè una discarica a cielo aperto. Solo che mentre questi vengono a scaricare qui le tossiche deiezioni delle loro aziende, i partiti vengono a scaricare o a coltivare al Sud quella feccia umana, quel sottobosco putrido della politica, spesso preposto a governare, che per la collettività è letale, mentre per loro è concime e lievito di successo. E le iniziative civiche e apartitiche? Quelle per lo più latitano, perchè – soprattutto nei tanti territori controllati dalla criminalità organizzata – fa paura intraprendere un percorso di attivismo per difendere il quale non di rado si rischia anche la vita. Cosa resta? Nel peggiore dei casi la rassegnazione, e nel migliore l’indignazione e la speranza che questo sistema, in un modo o nell’altro prima o poi arrivi a sgretolarsi. Magari coltivando un nuovo seme di civiltà nelle giovani generazioni. E questo è quanto.
Perchè questa premessa? E’ semplicemente una riflessione che ci viene suggerita da quanto accaduto in Abruzzo con quella che è stata definita la discarica di rifiuti tossici più grande d’Europa. Un ennesimo esempio di depredamento del territorio per il quale solo oggi qualcuno, forse, comincerà a pagare. Una tomba di 30 ettari per quasi 250 mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali, prodotti da un processo industriale sul quale erano state riposte speranze di sviluppo, ma poi sfuggito ad ogni forma di controllo. Una bomba ecologica al confine tra il Parco del Gran Sasso e quello della Maiella, nel territorio di Bussi sul Tirino (Pescara). Della serie, come danneggiare pesantemente un territorio fra i più belli del mondo: un’area che potrebbe prosperare grazie al turismo e che invece è costretta a soggiacere ad un sistema che ha procurato posti di lavoro pagati al prezzo di rischi altissimi per la salute e di laceranti ferite al territorio. Taranto docet.
Quella di Bussi è una storia che risale al 1972 e che è tornata alla ribalta a seguito delle prime iniziative giudiziarie. La vicenda iniziò con la lettera che l’allora assessore all’Igiene e alla sanità del Comune di Pescara, Giovanni Contratti, scrisse alla Montecatini Edison, proprietaria dello stabilimento chimico di Bussi, chiedendo che il sito fosse bonificato e che fossero adottate misure anti-inquinamento.Da allora sono passati 35 anni di silenzio e si arriva al 2007 quando la Guardia Forestale intervenne ad apporre i sigilli alla discarica Tre Monti. Passando ai giorni nostri, si è finalmente giunti al processo davanti alla Corte d’assise di Pescara in cui 19 responsabili dell’ex colosso chimico sono accusati di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison) sono stati aggiunti al registro degli indagati.
Un primo tentativo di quantificare il danno inferto al territorio è stato compiuto dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per il ministero della Salute ed ha valutato il danno ambientale a 8,5 miliardi di euro calcolando anche un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica. Sulla base della legge per il terremoto dell’Aquila, sono stati stanziati finora circa cinquanta milioni, che – spiega il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – “sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo.” La discarica di Tre Monti non è l’unica nell’area, ma solo la più grande e pericolosa di un gruppo che ne comprende altre due a suo tempo autorizzate per lo stoccaggio degli scarti di produzione, ma anch’esse sequestrate per ben due volte dalla magistratura a causa di gestione irregolare.
La scelta di quest’area per avviare processi di industrializzazione moderna risale addirittura all’Ottocento, quando si pensò di sfruttare, con un sistema di deviazioni, il flusso delle acque dei fiumi Tirino e Pescara, il primo dei quali (caso unico in Italia) addirittura inglobato nello stabilimento per produrre energia elettrica ed alimentare un impianto di scomposizione elettrolitica del cloruro di sodio per ricavarne cloro e soda. In questo stabilimento nel corso del 900 un migliaio di operai hanno lavorato alla produzione della formaldeide, il noto disinfettante, successivamente bandito dal mercato perché cancerogeno, ma anche della varechina, di perclorati e cloruro di ammonio. In epoca bellica la fabbrica di Bussi ha prodotto persino la famigerata iprite, il micidiale gas nervino usato in varie campagne militari e in anni recenti riemerso, come residuato bellico, anche dalle acque pugliesi di Molfetta (Bari).
Considerati gli scarti di produzione e le acque di scarico finite nel territorio, risulta quanto mai urgente operare una bonifica del polo chimico e di tutta la zona contaminata. Il presidente regionale di Legambiente – il geologo Angelo Di Matteo – ha lanciato un terribile allarme secondo il quale non sarebbe da escludersi l’inquinamento della falda freatica, in quanto lo strato di argilla sottostante, che secondo altri osservatori farebbe da tenuta stagna alla discarica dei veleni, secondo lui sarebbe porosa e quindi potenzialmente permeabile, capace cioè di lasciar filtrare le sostanze tossiche.
Intanto l’economia di questo piccolo paese di 2800 anime è allo stallo, con uno dei redditi pro-capite più bassi della regione, e si fa affidamento sul piano di reindustrializzazione, come un’occasione “storica” (parole del sindaco) che dovrebbe procurare un centinaio di posti di lavoro dopo decenni di assenza di investitori. Intanto si affacciano all’orizzonte le prime proposte imprenditoriali, che non stanno mancando di scatenare polemiche: da quella di Carlo Toto, patron di Air One – che vorrebbe trasformare l’ex polo chimico in un cementificio, che dovrebbe procurarsi la materia prima dalle vicine montagne (pare che l’imprenditore abbia già avanzato richiesta di concessioni minerarie) – a circa un’altra ventina di proposte che – stando alle dichiarazioni del sindaco – comprendono tre progetti nuovamente nel settore della chimica. Legambiente dal canto suo non si dichiara contraria alla reindustrializzazione, ma rivendica, nell’interesse del territorio, l’urgenza di “un salto di qualità”, trasformando quest’area in un “laboratorio delle bonifiche, per realizzare un esperimento di frontiera da replicare eventualmente nel resto d’Italia e d’Europa”.