Inizia dal sottosuolo il viaggio di Famedisud alla scoperta dei tesori di una Taranto sconosciuta ai più. Nobile e popolare, per secoli madre di cultura e fucina di bellezza, immeritatamente ma inesorabilmente oscurata dalla predominante immagine di città industriale tragicamente arenatasi sulle scorie di uno sviluppo annunciato ma mai realmente avvenuto. Ferita nel corpo, Taranto ricomincia dalla sua anima. Quella più autentica
di Enzo Garofalo
TARANTO PRIMA DELL’ILVA
Nel 1962, nello scrivere il commento introduttivo al documentario “Il pianeta acciaio” di Emilio Marsili, dedicato alla nascita a Taranto dell’acciaieria più grande d’Europa, la famigerata Italsider/Ilva, il grande scrittore e giornalista Dino Buzzati celebrava la pura bellezza di quella che millenni prima era stata una delle grandi capitali della Magna Grecia. Una città che del suo passato glorioso conservava fulgide impronte culturali e paesaggistiche, sia pure immerse in un contesto sociale con forti sacche di miseria e emigrazione. “Un paesaggio classico, il mare, la riva deserta, gli olivi, il sole, le cicale, la pace, la sonnolenza, tutto rimasto immobile e intatto dai tempi della Magna Grecia” – ricorda Buzzati, prima di passare a descrivere, con un’epica sinistra, l’avvento del mostro divoratore, la fabbrica. Ecco allora che quel paesaggio pieno di armonia viene messo a ferro e fuoco: “Quando vivevano Platone e Archimede questo olivo era già nato. A morte! Dopo duemila anni. Divelto da una forza infernale, schiantato giù nella polvere come uno stecco. Si aggirano gli orribili dinosauri di metallo. Via gli olivi. Via le vecchie casupole. Via le cicale e l’antico incanto mediterraneo, via! Le bestiali macchine vogliono fare il deserto, una landa senza un filo d’erba. L’hanno già fatto. Poche ore sono bastate a cancellare i millenni. E adesso bestioni preistorici miagolanti di soddisfazione fra il sole e il polverone insistono a spianare, pestare, livellare.”
Quella dello scrittore sembra una indignata arringa, se non fosse che ad un certo punto tanta devastazione sembra assumere il carattere di un sacrificio inevitabile: “Ma perché hanno devastato così? – prosegue Buzzati – Perché? Perché gli olivi, il sole, le cicale significavano sonno, abbandono, rassegnazione, miseria. E ora qui invece gli uomini hanno costruito una cattedrale immensa di metallo e di vetro per scatenarvi dentro il mostro infuocato che si chiama acciaio e che significa vita.” I toni propagandistici, ovviamente dettati dalla committenza del filmato, prendono dunque il sopravvento su quella che sembrava essere (e probabilmente era nel profondo) un’invettiva dell’intellettuale sensibile al richiamo della storia e della bellezza e tuttavia non immune dai diktat del nuovo industrialismo. Peccato, per Buzzati e per tutti quanti noi, che quel “mostro infuocato che si chiama acciaio” ha rappresentato per Taranto una progressiva discesa agli inferi da cui la città fatica a riemergere, afflitta com’è da gravi problematiche ambientali. Una realtà difficile che ha monopolizzato l’informazione, orientatasi quasi esclusivamente sulle tante inchieste giudiziarie fra cui il maxi processo “Ambiente svenduto“ che ha visto rinviate a giudizio con gravissime accuse 47 persone fra proprietari, manager, politici nazionali e locali, tecnici, funzionari ed ex commissari statali.
NEL CUORE DI TARANTO
Famedisud ha scelto di andare oltre quella realtà e quell’immagine negative che nel tempo hanno finito per fagocitare ogni altro aspetto di Taranto, puntando a riportare all’attenzione generale il volto di una città sconosciuta ai più. Una Taranto nobile e popolare, per secoli madre di cultura e fucina di bellezza, immeritatamente ma inesorabilmente oscurata dalla predominante immagine di città industriale tragicamente arenatasi sulle scorie di uno sviluppo annunciato ma mai realmente avvenuto. Ferita nel corpo, Taranto ricomincia dalla sua anima, quella più autentica, seguendo le cui tracce siamo scesi nel sottosuolo, là dove pietra, acqua e lavoro dell’uomo si sono fusi nei secoli creando momenti irripetibili di civiltà.
Ad accoglierci a Piazza Castello troviamo Carmine De Gregorio, punta di diamante di “Nobilissima Taranto – Associazione di volontariato a difesa dei beni culturali della città di Taranto” e autore di libri su diversi aspetti della storia cittadina. Con lui c’è Anna Svelto, fotografa tarantina di prim’ordine, nonché voce indipendente nel dibattito ancora aperto sulle sorti della città. Carmine (per gli amici Nello) viene dal mondo dell’industria ma è la dimostrazione vivente di come un cittadino, animato da una autentica passione per il luogo in cui vive, per la sua storia e per il suo destino, possa fare tantissimo per contribuire a mutarne il corso in modo positivo. A Carmine e a Nobilissima Taranto si deve infatti la riscoperta di oltre 60 ipogei nelle viscere della Taranto antica, il nucleo urbano sorto su un’isola situata fra due mari, il Mar Piccolo e il Mar Grande, al centro fra la città nuova, collegata dal Ponte Girevole, e l’area occupata dall’Ilva e dai quartieri Tamburi e Paolo VI, raggiungibile anch’essa tramite un ponte, il Sant’Egidio o Ponte di Pietra.
Imboccata via Duomo, Taranto Vecchia si mostra subito come un mondo a parte, dove il tempo per certi versi sembra essersi fermato a mezzo secolo fa, e dove da tempo languono esanimi le promesse di un risanamento, mai mantenute dalle diverse amministrazioni. Qui poche migliaia di abitanti resistono fra legalità e illegalità, fra degrado e speranze di rinascita, animate da un prezioso capitale umano che agisce quotidianamente fuori dai clamori mediatici per ridare dignità a questo luogo e alla sua gente. Per anni considerata zona off limits per i turisti, esposti al rischio di sforare in zone ”rosse” in cui solo gli abitanti riescono a districarsi, Taranto Vecchia sta pian piano recuperando il contatto con l’esterno, grazie a sempre nuove iniziative che hanno nella cultura il loro punto di forza. A promuoverle persone di ogni età, ma soprattutto tanti giovani che cercano di instaurare un dialogo con le istituzioni locali che qui possiedono un ingente patrimonio edilizio spesso dimenticato. Inoltre la metamorfosi degli abitanti da pescatori in metalmeccanici non ha mai fatto tramontare il desiderio di ritrovare l’antico rapporto con quel mare che nell’VIII sec. a.C. condusse qui gli Spartani del mitico Falanto e che per definizione è simbolo di apertura e di accoglienza. Iniziamo dunque il nostro viaggio di scoperta del volto ”segreto” di una città il cui territorio è sempre stato sfruttato ai danni della popolazione; percorriamone le strade e i vicoli tortuosi, la cui persistente bellezza è un invito ad immaginarne una rinascita basata sulla salvaguardia dell’identità e sul rifiuto di qualsiasi scellerato progetto di speculazione edilizia.
Mentre ci accingiamo a visitare alcuni dei 26 ipogei accessibili al pubblico con visite guidate che si svolgono ogni domenica lungo un percorso di circa due ore, in 8 tappe fra ipogei e ambienti rupestri, Nello De Gregorio ci racconta come accanto alle tracce della metropoli magno-greca la città vecchia conservi quelle della riorganizzazione bizantina avvenuta intorno all’anno Mille della nostra era e come gli spazi ricavati nel banco calcarenitico dell’isola attraversino i millenni testimoniando un processo di trasformazione ma anche una continuità d’uso che ha contrassegnato la vita della città. Un mondo sconosciuto ai più che rivela la forte impronta lasciata soprattutto dalla fase tardo-antica e medievale, ma che racchiude anche chiari i segni delle epoche precedenti. Singoli ambienti ipogeici e una fitta rete di cunicoli, spesso dopo secoli di oblio, si offrono ora all’attenzione scientifica degli studiosi, rappresentando al tempo stesso un’attrattiva turistica di incommensurabile valore la cui fruizione attende di essere portata a regime. Insomma, la storia di Taranto, dall’età greco-arcaica a quella moderna è ancora in gran parte nascosta in questa “città sotterranea” su cui l’impegno di un gruppo di cittadini è riuscito ad accendere i riflettori.
Numerose sono le cavità sotterranee che, disseminate sotto palazzi nobiliari, chiese e conventi, delineano una stratigrafia archeologica ed urbanistica plurimillenaria, con ipogei che si sovrappongono e si intersecano in una affascinante complessità cronologica e funzionale. Si scopre così che spesso le cantine dei palazzi storici oggi visibili sono state ricavate dalle cave di estrazione dello stesso materiale servito a costruirli, ma in molte di esse vi si ritrovano interi lacerti di cave più antiche, anche di età greca, come negli ipogei Bellacicco, Nardoni, Mannarini, o sotto l’ex monastero di Santa Chiara. E poi ancora resti di strutture di età romana o pozzi e cisterne medievali e di età moderna, come i silos altomedievali nell’area del tempio dorico o la grande cisterna settecentesca nel convento di San Francesco. Significativa anche la presenza di ipogei produttivi come frantoi, forni, fornaci e fogge granarie (notevoli quelli dei Palazzi Stola, Baffi, Mannarini, Arco Paisiello, Ulmo, e della chiesa di Sant’Andrea degli Armeni) e ipogei funerari, come quelli ritrovati presso Via Cava, Scaletta Calò e Via Nuova, o quello di Palazzo Delli Ponti ascrivibile a una necropoli paleocristiana del V° sec. d.C. che convive con un tratto delle mura greche del V° sec. a.C. Completa il suggestivo quadro un gran numero di cunicoli, caverne e camminamenti soprattutto in corrispondenza di quella che fu la base delle mura greche e bizantine, fra via Cava e Salita San Martino, e sotto la celebre “Ringhiera” lungo il fronte dell’isola affacciato sul Mar Grande. Della parte oggi fruibile di questa città “nascosta” l’associazione Nobilissima Taranto ha predisposto una mappa illustrata reperibile presso la sua sede in Via Duomo 243 (per informazioni e visite: tel. 327.4557909).
L’IPOGEO DI PALAZZO BAFFI
Il nostro breve viaggio nella Taranto sotterranea ha inizio dall’Ipogeo di Palazzo Baffi: da una porticina in I° Vico Quartiere accediamo a una ripida scala in pietra che scende nel profonda cavità sotterranea formata da due ambienti principali: il primo, più grande, è databile al XVIII secolo e, come rivelano tracce inequivocabili, fu usato prima come vera e propria carbonaia e poi come deposito di carbone; è caratterizzato dalla presenza di una lunga arcata realizzata con materiali antichi di reimpiego, fra cui conci di carparo di età magno-greca. L’altro ambiente è una cisterna per l’acqua, forse la più grande della città, che dovette avere una rilevante funzione fra Cinque e Seicento e di cui si può ancora vedere il rivestimento impermeabile in cocciopesto.
Una breve scala scavata nella roccia ci porta ancora più indietro nei secoli, a un livello in cui si mostrano tagli di cava di età greca e da cui si dipana un reticolo di cunicoli in direzione N, O e S. Resti di un rudimentale impianto elettrico del secondo dopoguerra testimoniano di un uso recente di questi spazi reconditi come rifugio antiaereo, ma la forza del passato più remoto prevale su ogni altra suggestione. Due dei cunicoli sono orientati verso il Castello Aragonese e la Piazzetta S. Francesco, mentre un terzo risulta collegato direttamente al mare. Come novelli Indiana Jones, lo percorriamo calcando pietre di epoca immemorabile, fra piccoli cespugli di capelvenere e copiose infiltrazioni di acqua dolce provenienti dalle falde carsiche del Mar Piccolo.
Dalla penombra alla luce piena il passo è breve ed eccoci spuntare sugli scogli del Mar Grande: una scena che non avrebbe sfigurato nel Conte di Montecristo di Dumas: così mi viene da pensare mentre osservo la lontana e indistinta sagoma dell’isola di San Paolo, insospettata dimora eterna dell’altro celebre scrittore francese Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, morto e sepolto a Taranto al tempo in cui era ufficiale napoleonico. Siamo alla base delle antiche mura, di fronte allo specchio di mare che a maggio è teatro del Palio – gara di barche a remi abbinate ai dieci rioni della città – e che agli inizi del ‘900 si offriva ai bagni dei tarantini, come testimoniano i resti di una spiaggetta su cui s’affacciavano le cabine di uno stabilimento balneare.
L’IPOGEO DELL’HOTEL S. ANDREA DEGLI ARMENI
Ritornati in superficie fra le vie del borgo, la nostra straordinaria passeggiata prosegue fra uno sguardo a un’antica torre di avvistamento inglobata fra gli edifici e, a quanto pare, progettata dal menzionato Laclos perchè fosse invisibile dal mare, e una fermata davanti al Palazzo De Notaristefani presso il cui piano nobile una certa tradizione vuole che lo scrittore francese abbia reso l’anima a Dio. Nello De Gregorio ci indica quindi i resti di una postierla di età greco-romana prima di approdare nell’edificio che oggi ospita il Residence Sant’Andrea degli Armeni, un hotel di charme posto ad angolo tra via Paisiello e Piazza Monteoliveto, che ha il privilegio di regalare ai suoi ospiti un viaggio nei millenni muovendo dal pianterreno di quello che un tempo fu il complesso annesso all’antica chiesa di S. Andrea degli Armeni (1373-1573), una delle cinque chiese armene presenti in Italia. Attraverso una scala in metallo attraversiamo alcuni ambienti adibiti nel XIV sec. a deposito e a fogge granarie ed entriamo in un vano quadrangolare al di sotto del quale si intravede parte di un setto murario di età arcaica. Su una piccola parete si intravvede un frammento di affresco probabilmente di età romana che sembra raffigurare un toro sullo sfondo di un paesaggio agreste. Attraverso un breve cunicolo entriamo quindi in un altro ambiente quadrangolare dove convivono in poco spazio resti di strutture greche, romane e medievali. A colpire sono soprattutto alcuni blocchi di carparo ancora in fase di taglio, così come alcuni rocchi di colonna e quello che gli studiosi hanno indicato essere un impianto vitivinicolo di età romana, con torchi e cisterna di raccolta. Intorno, sulle pareti, archi di età romana si intersecano con muri dalla classica tessitura medievale.
Ritornati all’aria aperta, pochi metri ci separano da quella che è una delle più belle realtà di gestione condivisa di un bene culturale a Taranto: la chiesa appunto di S. Andrea degli Armeni, di origine medievale ma riedificata nel XVI secolo, unica testimonianza di architettura religiosa di stile rinascimentale presente in città. Dopo il riconoscimento del suo interesse storico-artistico, con conseguente restauro, la chiesa è rimasta chiusa e abbandonata per decenni, finché nel 2012 è partita una iniziativa di gestione condivisa da parte di associazioni e vicinato, dalla quale è nato il progetto Domus Armenorum, che promuove il recupero e la gestione partecipata del patrimonio culturale diffuso della città vecchia per scongiurarne la perdita o l’alienazione, garantirne la fruizione e sperimentare nuovi modelli di valorizzazione integrata. Già dopo pochi mesi di attività, il luogo è diventato punto di riferimento sia per la comunità armena in Italia, che per l’attuazione di virtuose pratiche di gestione, partecipazione, innovazione, integrazione sociale e rigenerazione urbana “dal basso”. In questo spazio prezioso si incubano anche idee e progetti per una fruizione turistica sostenibile dell’isola (alla Domus è legato anche il progetto Tarantovecchia.org) e vengono ospitate manifestazioni d’interesse storico, artistico e culturale.
LA BASILICHETTA FUNERARIA IPOGEA DI PALAZZO DELLI PONTI
Gli splendidi ipogei da visitare sono ancora tantissimi ma noi lasciamo la bella e travagliata città sul Mar Jonio raggiungendo la Basilichetta funeraria ipogea di Palazzo Delli Ponti. Si tratta di due ambienti accessibili da Largo Gennarini, all’interno dei quali sono stati individuati un’ampia cava e la parte absidale di una chiesetta di origine bizantina di cui si conserva il cippo dell’altare, ricavato da un più antico rocchio di colonna, oltre ad alcune tracce di pavimentazione e di un affresco. La struttura, già distrutta intorno alla fine del XIII secolo e riutilizzata nei suoi spazi per diverse sepolture, rimane l’importante testimonianza di uno dei periodi più significativi della storia cittadina. Il nostro “assaggio” della Taranto sotterranea volge dunque al termine non prima di aver appreso che Nello De Gregorio e Nobilissima Taranto stanno lavorando per creare una rete fra i luoghi di Puglia che vantano ipogei e perché venga adottata una apposita legge regionale di tutela: il nostro è stato un viaggio breve, ma sufficiente a farci riconoscere l’incommensurabile preziosità di un patrimonio vastissimo che ancor meglio organizzato, divulgato e reso fruibile, avrà un impatto incalcolabile sull’offerta turistica e culturale di Taranto, città della quale continueremo ad esplorare i tesori “nascosti” in una prossima puntata.
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