di Flavio R. Albano*
A parlare con convinzione di turismo e cultura come motore dello sviluppo nel nostro Paese spesso si continua a passare per degli alieni. Eppure puntare su questo binomio rimane la direzione imprescindibile per un Paese come l’Italia che in questi settori ha prerogative di cui altri sono privi; mi riferisco ad altre nazioni che, pur dotate di risorse di gran lunga inferiori, sono riuscite a trasformare turismo e cultura in importanti voci della propria economia. Occorre quindi continuare a riflettere sulla opportunità di perseguire obiettivi analoghi, non prima però di aver preso atto di alcuni punti fermi della nostra realtà:
1. gli italiani non sono stati dei grandi industriali (come mi disse un mio professore di management); vedi l’Ilva, vedi la Fiat o vedi qualsiasi altra: o sono fallite, o ci hanno ammalato o se erano sane e profittevoli ce le siamo vendute;
2. gli italiani non si lamentano mai dal vivo, ormai la coscienza si mette a posto con un tweet;
3. tutto ci fa schifo ma poco ci stupisce per davvero (ogni paese ha al suo interno un piccolo esempio di spreco di denaro pubblico o qualsiasi altra assurda ingiustizia);
4. In Italia, anche per sbaglio, si finisce in zone stupende, con paesaggi spettacolari, monumenti e scavi archeologici e ormai tutto questo non ci stupisce più di tanto;
5. il turismo è forse uno dei settori che meglio ha reagito alla crisi economica, non dico che non ha subito forti scosse, ma che non è crollato come gli altri;
6. l’Italia è famosa nel mondo principalmente per i suoi paesaggi, per l’enogastronomia e per il Made in Italy: è da qui che si può ripartire, da quello che abbiamo, se solo riuscissimo a ristrutturarlo, a ristrutturarci, a liberarci dalla burocrazia mentale e materiale, se collaborassimo;
7. la collaborazione è la chiave del progresso: non saremmo dove siamo senza la condivisione di un obiettivo, non saremmo dove siamo come popolo se non avessimo smarrito l’identità culturale dei nostri borghi e dei nostri paesi. La cooperazione è stata sicuramente tra i punti di partenza dell’evoluzione umana. Sin dall’alba dei tempi, l’uomo ha compreso che per raggiungere obiettivi fondamentali, quali la sopravvivenza e lo sviluppo, doveva necessariamente fare affidamento sulla collettività e sulla comunità di intenti.
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Essendo italiano spesso mi ritrovo ad assistere a paradossi senza né capo né coda nei più svariati ambiti e a pensare come sarebbe se facessimo le “cose” come se queste ci riguardassero, come se fossero “cose” relative al nostro passato, alla nostra cultura, al nostro essere popolo. Probabilmente però, la stessa vicenda giudiziaria di Expo Milano 2015 è rappresentativa di un modo di essere italiani che proprio non riusciamo a superare, un ”costume” che spero non veda più un futuro. Ho perso il conto degli avvisi di garanzia recapitati in questa esposizione universale, ci si potrebbe fare un padiglione, ma adesso siamo all’antologia dell’assurdo: dalle opere che verranno consegnate a fine agosto (l’Expo si apre il 1° maggio) ai bandi Camouflage per nascondere le incompiute; sempre e per sempre un popolo che lascia strascichi di ruderi e mattoni rotti all’aria aperta, orizzonti di secondi piani senza finestre e senza intonaco. Un lampadario da 100 mila euro di Zaha Hadid e l’ascensore più grande d’Europa: sarebbero stati solo alcuni degli sfarzi dell’Arsenale de La Maddalena, che ora verte in stato di abbandono, un hotel che avrebbe dovuto ospitare il G8 del 2009 ma che fin ora ha potuto renderci solamente un conto da 470 milioni di denaro pubblico. Che tristezza. Ma così ce ne sono a migliaia di esempi e poi…la spending review sulla pelle del popolo?
L’Italia con la sua attuale “coscienza” nazionale deve fare un passo indietro, deve riscoprire la sua coscienza civica, politica e ospitale. È inutile parlare di “petrolio” o “risorsa”, è inutile parlare di cultura, millantare statistiche con l’80%, 70 o 50% del patrimonio artistico mondiale di derivazione italiana se siamo diventati il popolo che lascia crollare Pompei e decide di mettersi in mostra al mondo in una delle aree più industrializzate e inquinate del paese (l’Expo si farà nel nebbioso interland milanese in un Paese con più di 7.000 km di costa).
La realtà attuale vede l’Italia scivolare anno dopo anno come marchio turistico (ultima indagine Country brand Index, dal 1° al 18° posto in dieci anni), restiamo sempre i primi in appeal (ossia tutti sognano una vacanza in Italia, ma pochi concretizzano i loro desideri), nel rapporto qualità/prezzo in due anni siamo passati dal 28° al 57° posto, bassissimi livelli di sicurezza, precisione e affidabilità dei trasporti da anni in negativo. I turisti non sono “fessi”, come spesso si è creduto nell’immaginario comune, compresa la fregatura, non tornano più!
Quello che serve è strutturare, strutturare il nostro modo di rapportarci, strutturare il nostro prodotto turistico e strutturare la nostra burocrazia, il nostro Stato, prendere la cosa di petto, non accumulare gli affari turistici con altre cose, non nominare medici, avvocati, commercianti o operai nella direzione degli assessorati turistici, non politici ma tecnici veri, figure che abbiano “competenze”.
Dobbiamo migliorare la nostra qualità della vita (siamo al 25° posto), migliorando noi stessi, miglioreremo l’immagine del nostro Paese.
Abbiamo un mercato che si evolve e cambia continuamente, che fa i conti con gli errori commessi, che deve risollevarsi di fronte alle crisi e che deve eliminare le cattive abitudini, fatte di sterile ed arida competitività. Ed è proprio la competitività che diventa il fattore deterrente della collaborazione nella piccola impresa. Erroneamente è diffusa l’idea che collaborare e mettersi a sistema, creare cooperazione possa in qualche modo intaccare la forza economica di una qualche idea imprenditoriale. Al contrario, dal punto di vista teorico, l’aggregazione, in qualsiasi forma, non può che creare opportunità positive per la crescita e lo sviluppo, perché solo attraverso le relazioni vi potranno essere nuovi scambi, nuovi processi e condivisione di nuove conoscenze. Siamo noi che stravolgiamo tutto mettendo in atto guerre tra poveri inutili e sterili che non raggiungono altro che una sopravvivenza momentanea destinata ad implodere in sé stessa.
La realtà dei fatti ci mostra come i new consumer siano attenti alle nostre peculiarità legate alla identità territoriale, legate alla nostra manifattura, al Made in Italy, tutti fattori profondamente irreplicabili in altri paesi. In sostanza l’evoluzione di questi ultimi anni conserva al suo interno una grande opportunità, ossia ripercorrere la nostra storia imprenditoriale fatta di eccellenze legate alle tradizioni manifatturiere, agroalimentari e turistiche ma rivisitarle, approcciarsi in maniera moderna, social-condivisa e connessa. Questa opportunità potrebbe trasformarsi in sviluppo, solo però attraverso un adeguato processo di sviluppo economico, ossia ripercorrendo un modello imprenditoriale genuino e legato al territorio ma profondamente aperto e connesso.
All’interno del sistema turistico italiano un grande deterrente dello sviluppo è stato, per anni, rappresentato dalla difficoltà nel fare rete e creare sinergie. C’è bisogno di reali possibilità per mettersi in gioco, confrontarsi, creare connessioni che sviluppino sistemi territoriali o categorie di prodotto (o professionalità) trascendendo dalla inutile competizione locale, che ormai non consente la sopravvivenza e disturba il processo evolutivo. Le imprese e i lavoratori di oggi hanno di fronte nuove difficoltà, nuove sfide che non possono essere affrontate con i vecchi metodi. Anche le imprese storiche, tramandate di padre in figlio, oggi devono fare i conti con l’internazionalizzazione, con i paesi in via di sviluppo, con sistemi legislativi e fiscali che annullano, di fatto, qualsiasi precedente conformazione strategica.
Un possibile spunto può essere preso da alcuni studi condotti, che evidenziano come nell’immaginario comune all’estero, l’Italia venga vista come un insieme di borghi (fatta eccezione per le grandi metropoli) e proprio questa conformazione storica-topografica, risulta essere motivo di attrazione. Proprio in quest’ottica è possibile fondere i concetti di valorizzazione della cultura e ospitalità, riscoprendo tutta quella serie di peculiarità territoriali, anche immateriali che formano il patrimonio culturale-rurale di questi piccoli borghi e valorizzarlo, veicolarlo fino al consumatore finale, rendendo visibile quello che ora è invisibile fuori dal borgo, facendogli parlare la lingua del consumatore, che non significa snaturarlo o mercificarlo, significa renderlo fruibile.
Con Matera 2019 abbiamo assistito “all’ospitalità collaborativa” ossia la partecipazione all’ospitalità da parte di normali cittadini. In quel caso tale ospitalità era diretta ai giudici che poi premiarono la cittadina lucana, ma oggi ne osserviamo una nuova versione volta all’Expo. Il progetto si chiama Piacere, Milano e ha l’obiettivo di integrare l’ospitalità classica a forme di ospitalità non tradizionali, basate sul concetto di turismo collaborativo e partecipativo. Questo progetto nasce dall’idea di restituire ai milanesi un ruolo da protagonisti in occasione di Expo, coinvolgendoli in prima persona e affidando loro il compito di essere ambasciatori della propria città attraverso tre azioni: offrirsi di ospitare a cena (gratuitamente) visitatori e turisti secondo la filosofia del social eating; proporsi come narratori della città per un giorno facendo da ciceroni ai visitatori nelle strade della “loro” città; contribuire alla creazione di una mappatura social delle storie e dei percorsi del progetto che resterà a disposizione della città. Ovviamente tutto questo è possibile attraverso l’implementazione di connessioni, infrastrutture fisiche, digitali (l’83% delle aziende fallite nel 2013 non era presente sul web) e collaborazione.
Il nostro Paese è al primo posto per siti Unesco (subito dietro abbiamo la Cina grande almeno tre volte), abbiamo più di 4000 musei, più di 95.000 chiese e la sede stessa dello Stato Apostolico, aree archeologiche a più non posso (tanto che alcune le ignoriamo fino a quando non ci bloccano qualche linea della metro), ogni tipo di arte o corrente, o spiffero di cultura, se non è nato qui, ci è passato sicuramente. Questo Paese fa rabbia perché avrebbe tanto da offrire al mondo e soprattutto ai suoi abitanti ma realmente i giovani vengono scacciati, l’arte ammuffisce e il sottosuolo marcisce.
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*Flavio R. Albano è docente a contratto di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli studi di Bari (sede di Taranto). Dal 2006 collabora con aziende di servizi turistici di tutta Italia nella selezione, formazione e gestione delle risorse umane. Ad oggi ha all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche e partecipazioni a conferenze internazionali, tra cui: la Verona-Toulon Conference sull’High Quality business in Slovenia e il I° Foro internacional de destinos turisticos de Maspalomas – Costa Canaria, inoltre è autore di una ricerca universitaria sull’implementazione di strutture turistiche eco-sostenibili lungo la Costa barese e collabora con diversi enti pubblici e privati sullo sviluppo di analisi di marketing territoriale. Nel 2014 ha pubblicato il libro “Turismo & Management d’impresa” subito adottato all’Università della Basilicata. Nel tempo libero scrive romanzi di narrativa, dipinge, suona la batteria e recitare resta la sua più grande passione.