di Kasia Burney Gargiulo
“Annosum vinum, socius vetus, et vetus aurum, haec sunt in cunctis trina probata locis” (Vino vecchio, amico di vecchia data e oro antico sono tre argomenti apprezzati dappertutto) dicevano gli antichi romani. E non c’è dubbio che il vino fosse un “argomento” molto di moda a Pompei se consideriamo le numerose tracce di vigneti ritrovate nell’area della città vesuviana che attestano il primato di questa produzione agricola, o gli altrettanto frequenti resti di cauponae, ossia le osterie popolari con spaccio e mescita di vino e talora con servizio di cucina. Molto indicativa, sul piano iconografico, è poi la splendida immagine affrescata della Casa del Centenario, con Dioniso avvolto nei grappoli d’uva, raffigurato sullo sfondo di un Vesuvio ricoperto di vigne, prima del suo tragico risveglio. Da queste premesse all’idea di riportare la coltivazione della vite all’interno del Parco Archeologico di Pompei il passo è stato breve.
L’iniziativa è stata avviata nel 1994, quale esperimento di botanica applicata all’archeologia condotto dal Laboratorio di Ricerche Applicate, a lungo diretto dalla d.ssa Annamaria Ciarallo, in collaborazione con l’azienda vitivinicola campana Mastroberardino, presieduta dal Prof. Piero Mastroberardino, che ancora oggi cura le ricerche preliminari, l’impianto e la coltivazione dei vigneti dell’antica Pompei, oltre a dar vita al pregiato vino “Villa dei Misteri”. La coltivazione della vite all’interno del Parco Archeologico ha inizialmente riguardato un’area limitata degli scavi, mentre attualmente interessa 15 aree a vigneto nelle Regiones I e II dell’antica Pompei per un’estensione totale di circa un ettaro e mezzo e una produzione potenziale di circa 40 quintali per ettaro. Fra gli appezzamenti, particolarmente ampio è quello del Foro Boario, al tempo del suo scavo ritenuto un’area di mercato del bestiame a causa del ritrovamento di resti di ossa bovine, ma rivelatosi in realtà un vinetum, ossia un vasto vigneto in cui, accanto alla coltivazione della vite, c’era anche la vendita diretta del prodotto finito, su appositi banconi in muratura, ai frequentatori del vicino Anfiteatro. Altre vigne le troviamo presso la Casa del Triclinio estivo, la Domus della nave Europa, la Caupona del Gladiatore, la Caupona di Eusino e l’Orto dei Fuggiaschi, solo per citarne alcune.
Grazie a questa iniziativa la vendemmia è ormai diventata un rituale negli scavi di Pompei e anche il 2018 avrà la sua: è la XIXa e sarà festeggiata con un evento programmato per il 25 ottobre alle 10.00 presso il vigneto della Casa del Triclinio Estivo dove si terrà un brindisi augurale con il Direttore Generale Massimo Osanna e il prof. Piero Mastroberardino titolare dell’omonima azienda vitivinicola che da sempre collabora con la Soprintendenza in questo progetto basato sullo studio scientifico delle antiche tecniche di viticoltura. Quest’anno gli ospiti degusteranno il Villa dei Misteri Annata 2011, prima produzione ottenuta dall’uvaggio storico di Piedirosso e Sciascinoso e dal primo raccolto di Aglianico. A quest’ultimo nobile vitigno, considerato uno dei più rappresentativi della viticoltura antica e particolarmente adatto alla produzione di grandi vini rossi da lungo invecchiamento, sono state destinate le aree che nel 2007 hanno ampliato il progetto di produzione vitivinicola negli scavi di Pompei. Per esso è stata scelta la forma di allevamento ad alberello, considerata ideale per l’Aglianico nel microclima di Pompei, combinando così un vitigno di origine greca (Vitis Hellenica, secondo un’accreditata ipotesi sull’origine del nome) con la tipica potatura corta, anch’essa di matrice ellenica.
Produrre il vino all’interno dell’area archeologica di Pompei si è rivelato un efficace strumento di difesa del territorio, del paesaggio e dell’ambiente ma innanzitutto un modo ulteriore e affascinante per far conoscere la cultura e le antiche tradizioni della città vesuviana. E che la tradizione del vino a Pompei fosse fortemente radicata ce lo dicono autorevoli fonti letterarie come Plinio e Columella, autori del I secolo d.C. che citano anche i nomi di alcune varietà d’uva dell’epoca: dalla Aminea gemina minor, con grappoli doppi, alla Murgentina, di origine siciliana, talmente diffusa a Pompei da essere ribattezzata Pompeiana, alla Holconia così detta dal nome della famiglia pompeiana degli Holconii, alla Vennuncula, nota per il vino particolarmente robusto che se ne ricavava. Sempre da loro apprendiamo che la vendemmia avveniva tra fine settembre e prima metà di ottobre e che una volta raccolta, l’uva veniva trasportata con dei carri nelle residenze-fattorie (ville rusticae) e ammassata nel torcularium, un ambiente munito di pareti e pavimento impermeabili dove avveniva la pigiatura.
Questa si articolava in due fasi: si iniziava col pigiare i grappoli a piedi scalzi, ottenendo gran parte del succo d’uva che la pendenza del pavimento convogliava verso un foro collegato ad un contenitore in terracotta (dolium) oppure a una vasca, che poteva essere aperta (lacus) o chiusa (cisterna); parte del mosto ottenuto in questa fase si offriva al dio Bacco, nume tutelare del vino e dell’attività per produrlo. Si proseguiva quindi con la premitura, consistente nella compressione delle vinacce con un apposito strumento, il torchio (torcular), realizzato di solito in legno di quercia. Il mosto veniva quindi versato in appositi orci fittili interrati (dolia defossa) nella cella vinaria dove aveva luogo la fermentazione. Il vino veniva quindi conservato negli stessi dolia, chiusi da un doppio coperchio e sigillati con malta, fino al momento della spillatura primaverile.
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non è riuscita a cancellare luoghi e oggetti di questo affascinante procedimento, così come l’archeobotanica ha permesso di identificare le tracce delle antiche viti, delle cui radici esistono calchi in gesso ricavati dagli studiosi riempiendo il vuoto lasciato nel terreno dalla decomposizione del materiale organico seguita all’eruzione. Il quadro agreste pompeiano, oggi in gran parte ricomposto, è completato infine dai calchi dei pali di sostegno dei singoli filari e delle radici di alberi che, come l’ulivo, il noce, il fico, il mandorlo e altri alberi da frutto, accompagnavano l’antica coltura della vite in una città che, in vari modi, continua ancora a vivere oltre le barriere del tempo.
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Bibliografia:– Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Pompei è viva, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 218
– Annamaria Ciarallo, Lello Capaldo, Orti e giardini dell’antica Pompei, Casa editrice Fausto Fiorentino, Napoli, 1992, pp. 78
– Annamaria Ciarallo, Verde pompeiano, ed. L’Erma di Bretschneider, Roma, 2000, pp. 80